martedì 18 ottobre 2016
«Le piccole cose crescono con la concordia, con la discordia si distruggono le più grandi» (Sallustio, Bellum Iugurthinum 10,6).Fu opinione dei filosofi antichi riguardo all'intero universo, che tutte le cose s'associano con la concordia e l'amicizia, mentre si dissociano se soggette alla discordia. Se applicassimo tale visione alla società umana, temo che quelli odierni apparirebbero tempi di discordia, dal momento che oggi la tolleranza verso gli altri popoli, a lungo tempo vantata come il grado più alto della nostra cultura, è ormai respinta e disapprovata.Eppure bisogna vedere se essa non fosse vacillante già dai primi fondamenti: infatti proprio la tolleranza, da molti sbandierata come assolutamente necessaria tra i diversi popoli, fiorisce e vige finché gli uomini, pur abitando nello stesso luogo, rimangono separati negli animi. Certo, sopportiamo facilmente quelle cose che a malapena o per nulla ci riguardano: da ciò deriva che la tolleranza presuppone una certa indifferenza.Dunque gli uomini diventano più inclini all'odio e all'ostilità quando temono quel ch'è estraneo come se fosse una minaccia. Non appena iniziano a provare tale sentimento, desiderano respingere più indietro possibile ciò che sa d'estraneo e anzi non credono sicura la loro cultura, se non la sentono ben distinta da quella altrui come da una fossa. Giacché dove i confini di ciascuno si confondono, lì penetra negli animi il timore che l'altro cominci a intromettersi nel proprio orticello.È questa la scintilla che fece scoppiare ogni guerra da che mondo è mondo. È forse per altro motivo che Caino, primo seminatore di discordia, osò metter le mani sul fratello, se non perché non ha voluto essere oscurato agli occhi di Dio dai sacrifici fraterni? Non diversamente ora, che diverse popolazioni confluiscono nella stessa società, vediamo che si sbandiera soprattutto ciò che ostenta diversità, discriminazione, differenza.Stando così le cose, non ci resta che, superata l'idea di tolleranza, gettare nuovi fondamenti, per costituire un'unica società da popoli diversi. Ma se crediamo che ciò si possa fare, non dobbiamo ripeter continuamente, come una stessa solfa, quel che ci divide gli uni gli altri (e chi è che non lo vede?), ma dobbiamo soprattutto coltivare le cose che uniscono gli uomini divisi. Bisogna sottolineare non la varietà di ciò ch'è dissimile, ma la verità di quel ch'è simile, da cui, come da una stessa radice, è nata la cultura degli uni e degli altri: è un segno della concordia che rifiorisce quando sentiamo che i cuori, anche se separati in corpi diversi, palpitano all'unisono.
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