mercoledì 11 luglio 2007
La terra è la sua gioia, sua gioia il cielo e lo splendore del sole e della luna. Sua gioia è l'inizio, il mezzo e la fine. Sua gioia l'ombra e la luce. Oceani e onde sono la sua gioia. Suoi giochi sono la luce, l'acqua, l'universo intero, terra e cielo.
Forse è accaduto a tutti di sostare in uno degli splendidi monasteri benedettini storici in una giornata di luce e scoprire in quel silenzio, interrotto solo dall'eco del canto gregoriano o dai suoni della natura, un senso unico di pace e di contemplazione. Oggi la liturgia celebra s. Benedetto, il padre del monachesimo occidentale. Egli è il vessillo cristiano di un popolo universale di mistici, di una folla di fedeli che in tutte le lingue e anche in tutte le confessioni religiose, ha cercato Dio con cuore puro e sereno. È ciò che affiora anche nei versi che abbiamo desunto da uno (l'82°) dei Canti dell'amore infinito di un poeta mistico indiano, Kabir (ca. 1440-1518).
L'idea che il mondo sia una sorta di cristallizzazione della gioia di Dio si trasforma in un invito a vivere nascita e morte, presenza e assenza, festa e lutto, felicità e dolore come iridescenze differenti di un'unica realtà che ha al suo interno un progetto, un significato, una coerenza. Siamo, quindi, condotti all'esperienza profonda della fede che non ignora l'esistenza del male, dell'ombra, della prova ma che riesce a collocarla all'interno di un disegno che ha una sua armonia e che è retto da una mano sapiente e superiore. È un po' questo il senso ultimo anche del libro di Giobbe. E dovrebbe essere un po' questa la meta della nostra fede che trova nella storia, con tutto il suo peso e la sua opacità, il filo di luce che conduce alla meta.
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