domenica 19 marzo 2017
Quasi nessuno legge più Orazio ma tutti ripetono continuamente un frammento dell'ultimo verso della sua XI ode: Carpe diem, «cogli l'attimo», parola d'ordine elaborata e smerciata in migliaia di libri sul “benessere” e sulla “spiritualità”, dove la finezza poetica è stata vantaggiosamente sostituita dai criteri ben più solidi del marketing operativo. Così troviamo in libreria Il potere di adesso (bestseller nella categoria «Salute e benessere» di Amazon), La serenità dell'istante di Trich Nhat Hanh, Il processo della presenza di Michael Brown o ancora Il metodo danese per vivere felici. Hygge - i danesi sono, secondo la quarta di copertina «le persone più felici del mondo» (ormai non c'è più niente di marcio in Danimarca). Ci si domanda come mai questi autori tanto soddisfatti dall'istante presente si diano la pena di pensare ai lettori futuri. Probabilmente mirano al bestseller solo per spirito di sacrificio. Nella sua ode a Leuconoe, prima di parlare dell'attimo da cogliere, Orazio parla degli dei e ci mette in guardia contro l'astrologia come rappresentativa di ogni tecnica finalizzata ad avere un controllo sul futuro: «Tu non chiedere - è sacrilego sapere - quale fine a me e quale fine a te gli Dèi abbiano concesso, o Leuconoe, e non consultare i calcoli babilonesi. È meglio patire ciò che sarà». Cogliere l'attimo, è innanzitutto superare ogni calcolo e ogni pianificazione, anche quando tale pianificazione riguardasse soltanto il minuto successivo, perché concentrarsi sull'istante presente può anche essere al solo scopo di emanciparsi dal passato e dal futuro, dimenticare l'irreversibilità del primo e trascurare l'imprevedibilità del secondo, mantenere il proprio self-control… Poi, secondo Orazio, il Carpe diem si fonda su un rapporto con la provvidenza divina: bisogna non essere sacrileghi al punto di preferire la sofferenza per ciò che sarà piuttosto che godere o lamentarsi di ciò che avremo saputo in anticipo. Questo rapporto è chiarito in una frase dell'ottava ode che riequilibra il Carpe Diem fin troppo famoso: Permitte divis cetera, «Rimetti tutto il resto agli dei». Di conseguenza, cogliere l'attimo non si riduce al solo momento presente: suppone una promessa e una speranza, la memoria che nel passato gli dei furono favorevoli e la coscienza che i mali che permetteranno saranno solo delle prove. Al contrario, la molto postmoderna spiritualità dell'istante si allinea perfettamente ai «calcoli babilonesi» rievocati dal poeta. Oggi quei calcoli si sono evoluti. Sono gli algoritmi di Google, gli standard del 5G... Ecco 145.000.000 risultati in 0,54 secondi. Ecco che tutto è subito reso presente dal più piccolo comando vocale, secondo un'unità di misura che supera la nostra immaginazione (gli orologi atomici riescono a suddividere l'istante fino al miliardesimo di secondo). La nostra è l'epoca dell'istantaneità. Le nuove tecnologie perfezionano la nostra impazienza. Abbiamo tutte le ragioni di darci a una push-button spirituality. Da una parte, la tela mondiale nella quale siamo intrappolati è così complessa, dipende di calcoli così disumani, è presagio di tali catastrofi, che ci sentiamo inadeguati alla nostra responsabilità nei suoi confronti: una tale impotenza davanti al Titano ci incita a non considerare più l'avvenire e a rifugiarci in un presente senza presenza, fuori dal mondo concreto, il mondo storico (i venditori di Carpe diem non smettono di parlare di «stato di risonanza armoniosa col mondo» mentre, nelle miniere del Congo, schiavi negri crepano per estrarre i minerali che servono al funzionamento dei nostri apparecchi social). D'altra parte, l'impulsività aggressiva del sistema ci spinge a reagire, a fare marcia indietro, ma senza scendere dalla macchina: si resta nell'impulsività, ma un'impulsività pacifica, quella di una pace interiore che sarebbe possibile avere immediatamente – la scorciatoia del clic è certamente preferibile alla via crucis. Sbaglieremmo, tuttavia, ad accusare i poveri adepti del Consumer Electronics Show. Questo movimento viene da lontano. Temo che Orazio stesso non fosse così chiaro. Anche dei bravi cristiani hanno interpretato il comando evangelico di non preoccuparsi dell'indomani (Mt 6 34) come un appello di Cristo a vivere istante per istante, con la profondità di un pesce rosso nella sua boccia (leggono «A ogni giorno basta la sua pena», e capiscono «A ogni giorno basta il suo benessere»). A dire il vero, la religione dell'istantaneità è il risultato di tutta una storia della metafisica dove si è affermato il primato del presente. Secondo questa metafisica, l'essere che è pienamente è l'essere attuale, interamente dato, senza nessuna riserva, senza nessuna potenzialità, e l'avvenire è percepito come il segno di una mancanza e la necessità di un supplemento. Tommaso d'Aquino non afferma forse l'essere innanzitutto come atto? Certo, ma attenzione al controsenso: l'atto per lui non è la semplice attualità. È potere attivo, bontà, fecondità, e dunque gravido di avvenire. Così anche, per eccellenza, la presenza sostanziale di Cristo nell'Eucarestia: porta con sé tutto uno slancio di missione e di visione futura. La vera presenza è attenzione e l'attenzione apre sempre un orizzonte di attesa operosa. Essere attento a qualcosa o a qualcuno è vegliare su di lui e accompagnare la sua crescita. Ma anche, reciprocamente, quando qualcuno mi è vicino, quando appare per ciò che veramente è e cioè il mio prossimo, la sua presenza stessa sfugge al presente, perché impegna l'avventura dell'incontro, della giustizia e dell'amore. Lévinas ha detto: «La relazione con un altro è l'assenza dell'altro; non assenza pura e semplice, non l'assenza del puro nulla, ma assenza nell'orizzonte di un avvenire». La spiritualità dell'istante presente è fatta su misura per l'era tecnologica. I suoi adepti non hanno figli a cui trasmettere, non hanno moglie alla quale restar fedeli (sarebbe troppo avvenire o troppo passato) e scaricano la preoccupazione di assicurare la loro sussistenza sul grande macchinario globale.
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