mercoledì 26 ottobre 2011
Una data: 7 luglio 1960. Una città: Reggio Emilia. Da qui Franco Palmieri prende l'abbrivo per un ampio, articolato e convincente ragionamento sull'intreccio fra cultura e politica da parte del Partito comunista che per anni non ha smesso di sognare e di preparare la rivoluzione, di cui i tragici fatti del 7 luglio 1960, quando a Reggio Emilia la polizia uccise cinque militanti comunisti, furono una sorta di prova generale.
Sommossa. La Piazza contro la Democrazia (Bietti) non è un saggio soltanto storico, anche se per due volte viene citato l'aforisma di Aldo Palazzeschi secondo cui «l'Italia è il Paese dove d'attualità è solo il passato»: quella data e quella città sono l'emergenza simbolica di un processo che dura tuttora, attraversando i moti del '68, il G8 di Genova nel 2001, fino ai black bloc di oggi.
L'analisi di Palmieri mostra il ruolo “antagonista” della cultura di sinistra (conferenze, libri, film) che hanno forgiato la mentalità di «vendicatori travestiti da patrioti», che non hanno mai accettato la sconfitta del 1948 per opera della Democrazia cristiana. Da qui un continuo appello alla piazza, essendo minoranza acritica nelle istituzioni.
Il 1960 fu l'anno del governo Tambroni, sostenuto dalla Dc con l'appoggio esterno del Msi. L'innesco (il pretesto) fu l'annunciato Congresso del Msi a Genova. Il 30 giugno venne proclamato dalla Camera del Lavoro genovese lo sciopero generale per sventare «la minaccia fascista». Per motivi di ordine pubblico il Congresso non si farà, eppure il 2 luglio Genova fu teatro di cortei e di scontri che si ripeterono il 6 a Roma in Porta San Paolo, e il 7 a Reggio Emilia, con l'epilogo tragico la cui dinamica quattro anni d'inchiesta non riuscirono a chiarire. «Era l'antifascismo miltante», scrive Palmieri, «che voleva scendere in piazza in un Paese, l'Italia, dove il fascismo non c'era più e c'era un partito di destra che pur avendo nel suo seno dei vecchi fascisti - come del resto erano stati milioni di italiani - stava in Parlamento grazie a libere elezioni democratiche».
Ma perché, dunque, Reggio? Non solo perché Reggio Emilia è il capoluogo del “triangolo della morte” in cui si perpetrarono gli assassinii del 1945, ma anche perché la città era una campionatura efficace della strategia culturale del Partito comunista, con le Case del popolo come cattedre di indottrinamento, temperato però dal rituale dei tortellini e della balera.
E Palmieri racconta gli eventi dall'angolo visuale del Presidio militare di Reggio, dove lavorano un maggiore, un maresciallo e un caporale di leva, studente di legge, che è (lo si capisce subito) l'autore stesso del racconto.
Il giovane caporale, romano, partecipa alle consuetudini dei coetanei (Casa del popolo, cinema, abiti borghesi custoditi da un amico), in una sorta di solidarietà sottintesa, senza che ci sia mai un vero chiarimento ai dubbi che gli vengono dai libri che legge, dalle intenzioni che intuisce. È il clima della saga di Peppone e don Camillo, «inventata sul filo della bonarietà da Giovannino Guareschi, funzionale più a Togliatti che a De Gasperi».
Palmieri, informatissimo anche sulla letteratura americana, è magistrale nel ricostruire attraverso libri e film la temperie degli anni in cui il realismo era diventato stanca ripetizione di una formula (Democrazia=Resistenza comunista) e la letteratura cercava altre strade, come fece Calvino evadendo verso favole surreali. Bel libro, coraggioso e tutto da leggere, lasciandosi trascinare dal compatto fluire delle argomentazioni di Franco Palmieri, che non concede al lettore nemmeno il respiro di un'articolazione in capitoli.
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