martedì 14 gennaio 2020
Ci sono momenti in cui verrebbe voglia di cambiare il nome di questa rubrica. Non più "euro-frammenti" come deciso all'inizio, con l'idea di scovare pazientemente e mettere in evidenza spunti, memorie e scenari futuri che valorizzino e difendano il progetto di fare del nostro continente una vera casa comune per tutti i popoli che lo abitano. Uno spazio, cioè, dove mostrare piccole o grandi tessere di un mosaico straordinario, senza precedenti nella storia, un ideale meritevole di impegno e anche di qualche sacrificio, perché accettato in vista di un bene comune più grande. Ma, appunto, ci sono momenti, come questo inizio d'anno, in cui si preferirebbe intitolarla piuttosto "euro-frantumi", vista l'immagine sbriciolata che l'Unione europea sta offrendo al mondo.
Mentre soffiano venti impetuosi di guerra minacciata, a tratti praticata, e si susseguono conflitti locali; nel momento in cui provano ad imporsi, sempre con la forza delle armi, nuovi protagonisti della politica internazionale, i vertici di Bruxelles sembrano incapaci di far sentire la voce unitaria dei 27 Stati membri (il 28° ormai è quasi fuori con entrambi i piedi). A parte qualche sporadica dichiarazione e pochi veloci briefing con la stampa, si mantengono in disparte, lasciano che si sviluppino iniziative di governi singoli o concordate tra pochi, incoraggiano di fatto una deriva all'insegna del disinteresse e dell'"ognun per sé".

Si dirà: suvvia, è sempre stato così. In politica internazionale l'Europa non ha quasi mai parlato a una sola voce, il palcoscenico appartiene ai "big" dei Paesi che contano. Ma, viene da replicare, questa è
una obiezione da perfetti euroscettici. Di più, è il tipo di giustificazione che meglio manifesta la
rassegnazione e lo spirito di resa, in un momento in cui si gioca il futuro comune di mezzo miliardo di cittadini. Ma come, proprio, quando tutto suggerisce che il mondo va in direzioni ignote e preoccupanti, anziché cogliere l'occasione per proporre sforzi e procedure straordinari, per osare quello che finora nessuno ha mai pensato, ci si ritira in buon odine e ci si mette alla finestra?
Per fortuna che ogni tanto torna a risuonare, con quei toni di accorata esortazione che sempre accompagnano le sue denunce di limiti e manchevolezze, la voce del Papa. Nel coraggioso, per certi versi paradossale, "discorso della speranza" pronunciato giovedì scorso davanti agli ambasciatori di tutto il mondo, Francesco ha di nuovo chiamato in causa l'Europa, invitandola anzitutto a riscoprire la sua vocazione originaria di promotrice del dialogo e della legalità internazionale. Le ha poi rammentato l'affermazione di Robert Schuman sull'esigenza di "sforzi creativi" per garantire la pace, sforzi "proporzionali ai pericoli che la minacciano". Come dire: se piovono razzi e missili da tutte le parti, ci vuole una strategia di pace almeno altrettanto diffusa ed "esplosiva".
Dal Pontefice è venuto anche un suggestivo richiamo all'antico spirito europeo, "che affonda le sue radici, tra l'altro, nella pietas romana e nella caritas cristiana". Possiamo immaginare lo scrollare di spalle e i sorrisi di condiscendenza che certe espressioni susciteranno nei vecchi cultori della realpolitik e tra i nuovi fautori del "prima noi". Ma costoro farebbero bene a meditare sul successivo riferimento all'incendio di Notre Dame, che per Francesco" ha mostrato quanto sia fragile e facile da distruggere anche ciò che sembra solido". L'immagine della grande cattedrale parigina, in qualche modo, riporta a quei milioni e milioni di piccoli sforzi di singoli costruttori, ai metaforici "frammenti" messi insieme da generazioni di credenti per farla grande e bella. Massì, in fondo vale la pena mantenerlo questo titolo.
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