domenica 21 gennaio 2018

Quando conobbi padre Mattia, abitava una capanna come un Robinson Crusoe della savana. Stava in un punto indefinito, senza nome, del Sud Sudan, a mezza giornata di jeep dalla più vicina striscia di terra battuta che consentiva l'atterraggio a piccoli aeroplani. La missione era fatta di assi inchiodate, tronchi e palizzate, e tanta ruggine per tetto. La dependance per gli ospiti era una vuota baracca, poco più grande della branda senza materasso che conteneva al suo interno. Gli arredi consistevano nelle reticelle per proteggersi dalle zanzare della malaria, da scorpioni e rettili molesti. I roditori scorrazzavano indifferenti sotto i letti. Quando faceva buio tutto diventava nero e la notte faceva timore, anche se erano solo le sei del pomeriggio e si cenava, minestra riscaldata, al lume di qualche candela. La toilette, per modo di dire, era un profondo buco scavato nella nuda terra, sotto il cielo stellato.
Il popolo indigeno di padre Mattia, allora, erano alcune decine di famiglie contadine ricche solo di tanti bambini, sparse qua e là nei tucul di paglia ai margini della boscaglia, e senza candele; mentre il suo mare da evangelizzare si spandeva a perdita d'occhio per decine e decine di chilometri. Mattia quando era giovane quelle terre le aveva percorse su e giù in bicicletta o con la moto, trasportando sempre l'immancabile enorme Crocifisso di legno, incurante di leoni ed elefanti. A padre Mattia, spesso, capitava di dover risolvere "il" problema. Ogni volta che le scorribande dei militari o dei predoni a cavallo depredavano e scacciavano le popolazioni indigene Dinka o Nuer dai loro villaggi, lui poi doveva risolvere una precisa necessità strategica: ritrovare la scuola. E sì: se per rifare un tucul bastava raccogliere qua e là rami, arbusti spinosi, frasche e tanta erba elefante, intrecciare il tutto, impastare fango con sterco, e il gioco era fatto; per la scuola la storia era diversa. Andava cercata con gli occhi.
Padre Mattia ha concluso la sua vita terrena nell'agosto del 2001, a 74 anni di età, e dopo cinquant'anni pieni di missionariato in Africa. I suoi resti mortali riposano nel piccolo cimitero cattolico di Lomin, uno sperduto villaggio tra Sud Sudan e Uganda, i due Paesi che ha più amato in assoluto. Aveva una barba bianco puro, lunga fin quasi all'ombelico, padre Mattia Bizzarro. Missionario comboniano d'altri tempi.
Quante cose sono cambiate, in questi anni. Quante trasformazioni stanno influenzando, modificandola, la nostra vita, il nostro vivere quotidiano. E allora si dibatte, anche, se è opportuno o meno introdurre gli smartphone nelle scuole, oppure è meglio difendere i "nativi digitali" da questi strumenti invasivi. Padre Mattia Bizzarro non avrebbe avuto il tempo per occuparsi di questo dibattito, mentre fattosi giorno e spenta la candela di cera, a piedi si sarebbe immerso nella ricerca del grande albero. Meglio se un albero di manghi, che avrebbero sfamato gli alunni, oppure il grande tamarindo dalla chioma gonfia, ampia quasi come una piccola piazza di paese. L'albero-scuola, adatto ad accogliere le decine di alunni sotto il suo ombrello, all'aria aperta. Per banchi tanti tronchi, quello davanti appena più alto, paralleli e orizzontali.
Padre Mattia una volta scrisse a casa: «La missione è composta da una decina di capanne di paglia. Il mobilio della mia capanna consiste in un letto di canne sostenuto da quattro pali, un tavolino, una sedia ed una bacinella per lavarmi. La zona è piena di zanzare e topi e non ho ancora visto un gatto. I topi una notte mi hanno mangiato le particole. Ma hanno cenato anche con la mia biancheria. Abbiamo 600 ragazzi delle elementari... Sono felice perché mi sento nelle mani del Signore».

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