domenica 20 maggio 2007
Dobbiamo al benessere opulento e all'orgoglio della tecnica se la fede in Dio va scomparendo. Abbiamo moltiplicato il rumore e riempito tutto di noi stessi. Dopo ciò ci meravigliamo se il Signore non si manifesta? Forse qualche volta la tentazione ha attraversato anche il cuore dei credenti: essi levano lo sguardo al cielo, spesso l'inquinamento lo riduce a una cappa grigia, priva di luce e di stelle, capace di farti sospettare solo il vorticare di satelliti militari, pronti a spiarti. L'occhio di Dio lassù non c'è più. Non si è più capaci di dire col profeta Isaia: «Il Signore siede sopra la volta del mondo, da dove gli abitanti sembrano cavallette» (40, 22). Né, si spera che «il Signore dal cielo si chini sugli uomini per vedere se esiste un saggio, se c'è uno che cerchi Dio» (Salmo 14, 2). Ci si convince, così, di essere ormai soli, senza testimoni e quindi autorizzati a fare quello che si vuole, senza remore e senza timore di Dio. Ecco, invece, la spiegazione vera di questa sensazione. Ce la offre Andrej Sinjavskij (1925-1997), scrittore del dissenso russo, migrato in Francia, e le sue sono parole che colpiscono nel segno. Un benessere opulento, una tecnica sempre più incontrollabile nella sua presunta onnipotenza, un rumore assordante che impedisce ogni interiorità, un accumulo di cose che cerca di ottundere i fremiti della coscienza: come possiamo pretendere di sentire i passi di un Dio che percorre le nostre strade senza battage pubblicitario perché la sua è la voce che parla ai cuori? Gli antichi latini dicevano che gli dei hanno pedes lanatos, i piedi avvolti di lana e quindi silenziosi. È per questo che Dio ci sembra assente, mentre ci è accanto, invisibile solo perché noi guardiamo altro, muto solo perché siamo con le cuffie del rumore esteriore.
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