domenica 5 marzo 2017
Ne La morte di Ivan Il'ic Tolstoj non si accontenta di descrivere l'incapacità di un uomo di accettare la propria morte, giacché è consigliere di corte d'appello, mondano e abituato a giudicare piuttosto che essere giudicato; Tolstoj mostra anche l'incapacità della pura logica di giungere a un'evidenza. Il ben noto sillogismo conserva la sua pertinenza sillogistica ma la conclusione astratta non riesce ad afferrarci nel vivo della carne: «Il'ic aveva imparato nel trattato di Logica di Kizeveter questo esempio di sillogismo: “Caio è un uomo; tutti gli uomini sono mortali; dunque Caio è mortale”. Questo ragionamento gli pareva completamente giusto quando si trattava di Caio ma non quando si trattava di se stesso. Era in questione di Caio o l'uomo in generale, e allora era naturale, ma lui non era né Caio né l'uomo in generale, lui era un essere diverso: era Vania, con mamma e papà, con Mitia e Volodia, con i suoi giocattoli, il cocchiere, la serva, poi con Katenka, con tutte le gioie, tutti i dispiaceri e tutti gli entusiasmi della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua gioventù. Era Caio che era stato innamorato? Era lui a dirigere così magistralmente i dibattimenti del tribunale?». Nel Viaggio al termine della notte Céline dice qualcosa che completa bene il giudizio di Tolstoj: «Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo». Un ragionamento ci colpisce concretamente solo mediante un corteo di immagini. Il linguaggio biblico lo dimostra: Dio non si rivela attraverso sillogismi, ma attingendo alla sua prima parola, quella della Creazione, fuoco, vento, roccia e acqua, sfogliando le pagine di un album rurale, con le sue greggi da condurre e i suoi campi da arare. Anche il digitale si sottomette a questo ordine: i suoi bit ci seducono solamente perché producono un turbine di effetti visuali e sonori. Attraverso gli schermi, l'informatica è costretta a rendere omaggio al sensibile, sebbene lo faccia
controvoglia, rifiutandogli il primato e pretendendo di ricostruirlo con un codice binario. Noi non siamo angeli e neppure dei sistemi-esperti. Per il logos l'analogia è più fondamentale della stessa logica. L'immaginazione non è il contrario della ragione, ma ciò che rende la ragione umana, che fa passare di un assenso nozionale a un assenso reale (J. H. Newman)… Questo non vale soltanto per la morte (perché si potrebbero ridurre le due precedenti citazioni a quest'unico oggetto fuggitivo). Questo vale anche per mia moglie e per tutto ciò che esiste e mi deve toccare… Posso sapere cosa sia il matrimonio attraverso le nozioni di unità, di fedeltà, di fecondità, ma se intorno non ho figure, avventure, esempi, questo è "poca cosa"; e se ne ho di tutti i colori allora "è troppo", posso intravedere la storia inesauribile che promettono queste due
parole. L'immaginario che da carne ai nostri concetti non è tuttavia lo stesso attraverso le epoche. Dipende dal nostro ambiente. In questo senso, la questione della verità si sposta della logica a una eco-logica. L'ambiente per noi non è mai quello della pura natura, ma di una natura mediata da una cultura. Il nostro "mondo primordiale" è quello dell'uso, come osserva Heidegger. Un fiume ci appare differentemente a seconda che sia luogo di pesca, di ponte, di passeggiata o di centrale idroelettrica. E se, attraverso la poesia, mi ricorda la metamorfosi di una ninfa, lo concepisco con un freschezza ancor diversa. Abbiamo così modi, o meglio "maniere di vedere", vale a dire che la nostra visione è condizionata da quello che facciamo con le nostre mani. Ora e labora, dice il motto benedettino. Oltre a una complementarità tra elevazione spirituale e lavoro manuale, il motto afferma che in noi la ragione contemplativa non può essere separata dalla ragione strumentale, e che queste si condizionano reciprocamente. Allora, quelli che criticano la tecnologia in quanto regno della "ragione strumentale" e gli oppongono una "ragione contemplativa" sbagliano. Dimenticano che la contemplazione dipende da una certa strumentalità e abbandonano di conseguenza la strumentalità e i modi di produzione al dominio del potere in carica. È così che la "contemplazione", la "meditazione" non sono più attività "borghesi" (Marx). Per denunciare il "virtuale" essi diranno: «Bisogna riconnettersi al reale» senza accorgersi che la modalità di ritorno al reale che propongono è ancora quella della tecnologia. Se la parola nexus rimandasse all' opera minuziosa del tappezziere, o al nodo di un intrigo la cui soluzione ci sfugge, la "riconnessione" potrebbe avere un senso critico. Ma siccome questo termine resta attaccato all'immagine internautica del legame istantaneo e pulsionale, il loro sforzo concettuale è rovinato dalla miseria delle loro mani. È questa l'affermazione centrale dei lavori di Matthew Crawford: «Il senso del "problema della tecnologia" è praticamente il contrario di ciò che generalmente si dice: ciò che pone problema, non è la "razionalità strumentale", ma il fatto che viviamo in un mondo che, infatti, non sollecita la strumentalità incarnata che è consustanziale al nostro essere». Non ci si oppone al macchinario disincarnato con bei discorsi né con la
mindfulness, ma con una lotta sociale per ristabilire una "strumentalità incarnata". Si resiste alla
digitalizzazione mondializzata soltanto opponendogli una vera digitalizzazione (e qui l'immagine può di nuovo rovesciare il concetto) e cioè
reimparando con le dita la pazienza di un saper fare. Se l'ambiente del mio matrimonio non è più quello di una coltura col suo lento germogliare e le sue mietiture precarie, con i suoi strumenti musicali che aprono, attraverso corde e pezzi di legno e fatica, l'infinito delle sonate e delle canzoni; se si riduce a "navigazione" e "apps" ultrarapide, allora le nozioni stesse di fedeltà e di fecondità mutano: la fedeltà diventa l'esattezza
di un orologio, priva di dramma e dunque chiusa al perdono; la fecondità si trasforma in esperimenti innovativi, dove un bambino ci sembra meno nuovo di una blockchain.
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