martedì 9 settembre 2014
«Da allora cessai di appartenere solo a me stesso, ne persi il diritto; da quel momento la mia vita appartenne a tutti». Verso il 1912 Carl Gustav Jung si trova a compiere una scelta fondamentale, decisiva per la sua vita. Il grande indagatore dell'anima, che riscopre un mondo arcaico di immagini e archetipi allontanandosi dal maestro Freud, ha intrapreso la carriera accademica presso l'università di Zurigo. Carriera molto promettente, ma incompatibile con l'attività che sta appassionatamente praticando: gli esperimenti d'indagine sull'inconscio. Una strada avventurosa, certo meno sicura, priva di garanzie dal punto di vista pratico, economico, sociale. Una scelta difficile, ma una decisione irrevocabile, impugnata con etico e irriducibile senso del dovere nei confronti di una missione: «mi sembrò più importante sub specie aeternitatis». Jung sceglie la sua strada obbedendo semplicemente a una vocazione, anteponendo il compito che sente affidatogli dalla vita a ogni altra considerazione. E motiva perfettamente, direi freddamente, questa scelta: si tratta di liberarsi di se stessi, di non appartenere più a sé ma anche al prossimo. Là dove l'arrogante vanta la propria padronanza di se stesso, e il suo dominio sugli altri, il saggio si ridimensiona, mettendosi al loro servizio.
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