sabato 14 luglio 2018
Non c'è nulla che indichi la proiezione di un Paese verso il futuro come lo "stato di salute" della ricerca. La questione, fortemente razionale, in Italia è tradizionalmente nascosta agli occhi dell'opinione pubblica sotto il tappeto di temi ad alto tasso d'emotività. Ma la preziosa Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia, elaborata dal Cnr a supporto delle decisioni di Governo e Parlamento, svela il grande paradosso della ricerca nel nostro Paese: poche risorse, molti talenti.
In Italia il rapporto tra spesa per Ricerca/Sviluppo e Pil sta aumentando: dall'1% del 2000 siamo passati all'1,3% del 2016. Ma è un tasso di crescita troppo lento per recuperare un gap storicamente molto ampio. Siamo dunque, tristemente, in fondo alla classifica europea. Ad esempio spendiamo "in futuro" meno di un quarto della Germania, circa 22 miliardi di euro contro i 92 del sistema-Paese teutonico.
Le due gambe su cui corre la ricerca di un Paese - quella pubblica e quella privata - si muovono in Italia a velocità molto diverse. Il 65% della spesa è finanziata dalle imprese, che hanno trainato la nostra modesta crescita negli ultimi 15 anni. Sapendo che probabilmente la spesa effettiva è superiore a quella contabilizzata, a causa delle dimensioni medie minori delle nostre aziende rispetto a quelle francesi, tedesche o inglesi. Il finanziamento pubblico complessivo alla ricerca, invece, non cresce: fin dai primi anni Duemila è ancorato allo 0,5% del Pil. Gli stanziamenti del Ministero competente agli Enti pubblici di ricerca sono addirittura diminuiti negli ultimi 15 anni: lo stesso Cnr ha subito una riduzione di fondi da 682 milioni a 533 milioni. Abbiamo, di conseguenza, meno dottori di ricerca attivi nel nostro Paese: oltre 10 mila nel 2007, meno di 8 mila nel 2016.
Non è un quadro confortante sul piano delle risorse. Eppure, sul piano dei risultati la situazione si ribalta. Dal 2000 al 2016 l'Italia ha aumentato la quota di ricerca detenuta a livello mondiale dal 3,2% al 4%, raggiungendo la Francia, in uno scenario nel quale al contrario tutti i Paesi occidentali hanno visto la propria quota ridursi a causa dell'ingresso nel panorama scientifico della Cina e di altre potenze emergenti. Anche la qualità delle nostre pubblicazioni (misurata tramite le citazioni medie per articolo scientifico) è in aumento: oggi per l'Italia è pari alla Germania e alla Francia e molto vicina al Regno Unito. Anche i brevetti depositati da imprese e autori italiani sono in aumento: tra i settori di punta a livello brevettuale l'ingegneria meccanica, che concentra il 42% delle domande presentate presso l'Ufficio europeo.
Abbondiamo di talenti, dunque, ma difettiamo di una governance di sistema. Volendo storicizzare il fenomeno, potremmo definirlo la "sindrome di Leonardo". Confortante a livello di Dna italico. Ma quando tutto questo si trasformerà in una strategia-Paese?
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