La Pasqua calda, povera e semplice di Bereina
martedì 9 aprile 2024
«Pensaci tu a Pasqua alla cattedrale», mi dice monsignor Otto Separy, vescovo di Bereina e presidente della Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea. Lui se ne va sui monti dove raramente i fedeli vedono un prete. Non riesco a partire per la Messa del Giovedì Santo, ma la mattina dopo di buonora carico le cibarie ed una mezza dozzina di giovani per tre ore di slalom tra buche di varia larghezza e profondità. Bereina è a centocinquanta chilometri ad ovest della capitale Port Moresby. Si risale la costa tra piantagioni di caucciù che interrompono il paesaggio quasi da savana; erba alta ma pochi alberi, terreno avaro, inadatto all’agricoltura. Il prodotto principale è
la noce di betel. La masticano come stimolante. La prossimità all’area urbana, circa mezzo milione di abitanti, assicura un mercato stabile. Ma il colore rossastro del liquido che si forma in bocca e poi viene sputato rende Port Moresby sporca e sgradevole. La missione di Bereina è
avvolta nel silenzio la mattina del Venerdì Santo. Non è
rimasto nessuno dopo l’ultima stazione della Croce verso le dieci. Anche Anna Pigozzo, religiosa della Fraternità della Trasfigurazione, ci accoglie con un filo di voce. «Sono in ritiro - sussurra - approfittiamo della calma della Pasqua; oggi io e due sorelle, domani le altre tre». Un nome italiano, da Noale provincia di Venezia, nella remota e solitaria Bereina!
Anzi, due! C’è anche Giovanna Bordin, Castelfranco Veneto (Treviso), della stessa comunità. Le altre quattro suore sono vietnamite. Ci sistemano in una casetta di legno con quattro stanze e cucina. In qualche punto il pavimento è
soffice. «Infatti siete gli ultimi ad usare la guest house - precisano il giorno dopo a tavola - le termiti se la stanno mangiando». Gli insetti mangiano il legno non trattato chimicamente. Ma non spaventano chi si tratta a digiuno e preghiera nel triduo pasquale. Le sorelle della Trasfigurazione di fatto tengono in vita la comunità di Bereina. Si curano di tutti, dall’anziano padre Paul Guy, l’ultimo australiano rimasto, a cui danno tre insuline al giorno, ai bambini da tenere in scuola in questa località ancora molto rurale, senza corrente elettrica (solo qualche pannello solare) né acquedotto (l’acqua viene dal cielo, e basta). Uno sente parlare di cattedrale e immagina chissà che cosa. Ma è
piccola, in legno, con sostegni in acciaio a vista, coperta di semplici lamiere ondulate, più modesta persino delle chiese dei villaggi vicini. La cattedra episcopale, poi, una comune poltrona di modesta fattura. Dietro a essa, sulla parete il motto rassicurante del vescovo Otto Separy: Have No Fear, Non avere paura. Senza ventilazione, il sudore scorre a rivoli la notte di Pasqua. Mai sudato tanto per una Messa, neanche celebrando la prima volta in anni ormai lontani in inglese, fillippino o tok pisin qui in Papua Nuova Guinea. Non ho chiesto a Giovanna Bordin se ha trovato gli insegnanti che cercava a dicembre. Ma la piccola scuola elementare di Gesù Buon Pastore, da loro registrata nel 2021, va bene. Il numero e la partecipazione attiva dei bambini alle funzioni e alle attività pasquali ne è
la prova. Si avverte invece una stretta al cuore alla scuola superiore della missione, cinque chilometri più avanti dentro la campagna, una trentina di insegnanti e seicento studenti. Aperta nel 1958 dai Fratelli delle Scuole Cristiane dell’Australia, ritiratisi ora da una quindicina d’anni, per decenni un modello accademico ed educativo, sopravvive ora tra scarsità di cibo per i ragazzi ed edifici pericolanti, bisognosa di un massiccio lavoro di ristrutturazione e rilancio. Il preside si scoraggia per un attimo al termine della visita, è
tentato dalle dimissioni. Gli prometto di prendermi a cuore la cosa. Torna a sorridere. Una stretta di mano. E Buona Pasqua Bereina, nella tua povertà e semplicità. © riproduzione riservata
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