giovedì 26 gennaio 2023
«Femmina!», gridò l’ostetrica in una calda notte di luglio, con quella nota di gioia che sempre le ostetriche hanno, quando un figlio viene al mondo. Femmina, scoprii di esserlo negli anni Sessanta a Milano. Mia madre mi vestiva come una bambola, ed era un rito, a ogni aprile, andare in tram in via Dante a comprare un abitino rosa, e le scarpe candide. A scuola ci mandavano divise dai maschi, loro in grembiule nero, noi bianco, ed educate a «stare composte». Dal cortile all’intervallo le grida dei ragazzi che giocavano a pallone. All’ora di applicazione tecnica noi ricamavano, loro battevano con i martelli. Mi venne un sospetto: che ai maschi fossero permesse cose più divertenti. (Dopo un po’, io con le bambole e le tazzine mi annoiavo). Curiosa, esploratrice di cassetti e di fienili, in montagna d’estate invidiavo la banda di ragazzini del posto che giocava a guardie e ladri e a nascondino. Sentivo, di là dal cortile, le corse affannate sulla ghiaia e le grida trionfanti: «Tana! Libera tutti!». Li osservavo, dalla mia parte della staccionata. Non mi volevano: ero una bambina. Non correvo veloce, non facevo a botte, e forse per un nulla avrei pianto. Ma io volevo, volevo giocare con loro. Lasciarono però che li seguissi, restando a guardarli. Un giorno facevano a gara a chi saltava giù dall’alto di un muro sbieco, che all’ultimo superava i due metri. Nemmeno il capo – avevamo nove anni – osava l’altezza massima. Io, ero paurosissima. Però, pensai dal mio angolo, se per un attimo avessi il coraggio di quel salto, forse poi mi farebbero giocare. Esitai, avanzai verso il punto più alto del muro. I ragazzini, zitti ora, mi fissavano. Avevo il cuore a mille. Saltai. Il vuoto, la ghiaia dura sotto ai piedi. Riaprii gli occhi: mi guardavano, ma adesso con ammirazione. «La bambina gioca con noi, ora», disse il capo. Scoprii la gioia delle corse a perdifiato, delle esplorazioni di sconosciuti giardini, di tornare a casa infangati, le ginocchia escoriate. Sì, le liti spesso fra loro finivano a botte (me, non mi toccavano, «è una bambina»). Fra noi femmine invece non ci picchiavamo, però, scoprivo crescendo, quanto taglienti erano certe parole sussurrate alle spalle, fra compagne di banco. Non solo gli schiaffi, fanno male. Quasi una doppia vita: in estate un maschiaccio, con la treccia sulle spalle. A Milano dovevo tornare una bambina, educata, gentile. Non che mi spiacesse esserlo, e provarmi i vestiti della mamma allo specchio, e immaginare come sarei stata, da grande. La metamorfosi avvenne d’improvviso, a sedici anni. Nel riflesso di una vetrina scoprii che mi guardava una donna. Meravigliata, mi sorrisi. Capii che dono era, essere donna, che cosa bella. Tardai a capire però che il mio corpo era come “fatto” apposta per qualcosa, che aspettava, ogni mese, qualcosa. La gioia incredula, infine una mattina d’inverno, in una farmacia di corso Buenos Aires: incinta. E nove mesi a chiedermi come potevo io, che non sapevo niente, fare un bambino. L’ora del parto, drammatica e fiera come una battaglia per fare vivere, non per far morire. Lo sbalordimento nel prendere tra le braccia quel piccolo, amatissimo sconosciuto. Avevo fatto l’inviato, viaggiavo, esploravo come un uomo. Ma cosa fosse la maternità, era qualcosa di indicibile. Nulla valeva quel privilegio. Così il maschiaccio di un tempo si affrettò a mettere al mondo altri due bambini e a tenerseli stretti, come una gatta con la sua cucciolata. Se rinascessi? Femmina, certamente. Ma di nuovo, che gioia giocare a guardie e ladri nel sole, rossa in faccia, sudata, con quei compagni bruschi ma leali. Loro, l’altra metà del mondo, i “maschi” col grembiule nero. © riproduzione riservata
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