sabato 3 settembre 2011
Qualcuno piange, / il pianto ha una sua voce: / chissà se è possibile riconoscere dal pianto / la lingua di un uomo. / Qualcuno ride, / il riso mi raggiunge, / forse dal riso di un uomo / si può riconoscerne la lingua.

Lo scrittore francese Michel Tournier diceva che il giorno è uguale per tutti; è la notte ad essere diversa per ciascuno, perché, se il sole rende chiara e visibile ogni cosa, la tenebra crea ovunque misteri e, quindi, paure. Fuor di metafora, la gioia ha tratti omogenei per tutti, il dolore acquista connotazioni continuamente mutevoli e proprie a ciascuno. Qualcosa del genere è sotteso ai versi, che abbiamo tradotto dall'inglese, composti da un poeta israeliano contemporaneo, Miron C. Izakson, 55 anni, di Haifa. Il riso è solare e spontaneamente rivela la «lingua» di chi sta festeggiando. Anzi, la sua è una lingua universale perché si dice che è esclusivo della persona umana ridere. Già Rabelais, in premessa al suo celebre Gargantua e Pantagruel (1524), affermava che «è meglio scrivere di riso che di lacrime, perché il riso è il segno dell'uomo».
Quando, invece, una persona piange, non riesci a scoprirne la «lingua» perché mille e diverse sono le ragioni. Anzi, la stessa prova è vissuta in forma differente da ciascuno, e così ciò che è per te un male lieve diventa per un altro una tragedia. Per questo, e giustamente, la poetessa americana dell'Ottocento, Ella W. Wilcox, scriveva: «Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e sarai solo a piangere». La «lingua» del sofferente è paradossalmente universale perché tutti soffrono nella vita, ma contemporaneamente è unica e incomprensibile in quanto ciascun sofferente custodisce in profondità il suo segreto ed è la vicinanza amorevole più che l'intelligenza a svelarlo.
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