giovedì 25 luglio 2019
«Si dice che gli esseri umani possano vivere quaranta giorni senza cibo, quattro giorni senza acqua e quattro minuti senza aria. Ma nessuno di noi può vivere quattro secondi senza speranza. Oggi sono qui a parlarvi di speranza...».
Ho pensato a molti modi per provare a ricordare Sergio Marchionne oggi, a un anno esatto dalla sua scomparsa. Poi mi sono arreso. Per spiegare cosa ci ha lasciato l'ex amministratore delegato di Fiat-Chrysler, nulla può essere più utile e incisivo delle sue stesse parole. Come quelle pronunciate in due discorsi rivolti agli studenti dell'Università Bocconi di Milano nel 2012 e nel 2014, che sintetizzo sfogliando gli appunti di allora.
«Credo che il futuro – diceva ai manager di domani – non sia solo un compito dei governi. È una responsabilità individuale e collettiva, affidata a chi ci mette voglia e passione, non si rassegna all'abbandono, ma lotta per fare, per costruire, per progredire. Pur tra le mille difficoltà, è il momento di ripartire e di farlo nel modo che conosciamo meglio: lavorando. Sono le cose che facciamo e il modo in cui le facciamo che parlano di noi stessi, della nostra visione del mondo, del tipo di persone che vogliamo essere. E solamente le cose che facciamo, ciò che costruiamo, ci fanno diventare unici. Oggi però viviamo nell'epoca dei diritti. Il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa; il diritto a urlare e a sfilare; il diritto a pretendere. Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati. Ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo. Perché questa “evoluzione della specie” crea una generazione molto più debole di quella precedente, senza coraggio, e che ha solo la speranza che qualcun altro faccia qualcosa per noi. Una specie di attendismo perverso e involutivo. Per questo dobbiamo tornare a un sano senso del dovere, alla consapevolezza che per avere bisogna anche dare. Nel 2004, quando sono stato chiamato a guidarla, la Fiat era chiusa su se stessa, isolata, lenta nel decidere e nel reagire. Non aveva più la capacità e la voglia di competere, né il contatto con la realtà e con il mercato. E perdeva 5 milioni di euro al giorno, week-end compresi. In quell'estate del 2004 mi sono presentato in ufficio a Torino. Era agosto, e non c'era nessuno. Cinque milioni al giorno, pensavo. Ho chiesto: ma la gente dov'è? "Sono in ferie". Ma in ferie da cosa? La Fiat era ed è una multinazionale: in Brasile se ne fregano di agosto, in America in agosto lavorano. Ma la Fiat chiudeva, stabilendo quando il mondo doveva smettere di lavorare. Invece al mondo non importa se da noi c'è il sole, se facciamo buone macchine, se siamo capaci di cantare e di fare da mangiare. L'Italia deve tornare ad essere credibile e affidabile. Andiamo a misurarci di fuori allora, andiamo a concorrere, a competere. Mettiamoci sullo stesso tappeto dove stanno gli altri, e poi vediamo se siamo capaci o meno. Spesso mi hanno chiesto come abbiamo fatto a salvare la Fiat e la Chrysler, un'azienda quasi morta e un'altra che iniziava a non sentirsi molto bene, unendole e trasformandole nel colosso mondiale che rappresentano oggi. Non esiste una ricetta, ma so che ogni storia di successo si basa sulla capacità di un gruppo di donne e di uomini di imprimere una svolta culturale a un certo ordine di cose. Quando si è in grado, come leader, di disegnare un ideale, di dare responsabilità alle persone convincendole che il destino è totalmente nelle loro mani e guidarle in questo percorso, si può raggiungere qualunque obiettivo, e anche superarlo. Quindi vi consiglio di mantenere la mente aperta. Aperta al nuovo, al diverso, alle infinite possibilità che si presenteranno, senza che le abbiate mai cercate e nemmeno immaginate. I risultati che riuscirete a raggiungere e l'intensità con cui vivrete dipendono in gran parte da questo. Chi non è in grado di vedere prospettive diverse, di ascoltare opinioni differenti, di andare oltre la propria esperienza, perde l'opportunità di vivere con pienezza. E la tragedia più grande è che non si renderà mai conto di ciò che ha perduto».
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