venerdì 8 marzo 2013
Un po' alla volta mi faccio una ragione del nazionalpessimismo calcistico che da tempo provoca il querulo devastante quesito cui sono sottoposto ogni giorno: «Mi scusi, di questo passo dove andremo a finire?». Ho il sospetto che gli apocalittici - apparentemente più numerosi e meglio armati dialetticamente degli integrati - abbiano ricavato il loro spesso rabbioso dissenso non tanto dalle cronache (e visioni) del pallone bensì dalle cronache (e visioni) dell'Italia, dell'ex Bel Paese nel quale ormai non è più dato gioire per nulla e ci s'abbandona a forme sempre più estreme di disfattismo. E invece, fra lo Stivale e il Pallone, un tempo più che metaforicamente collegati, s'è creata una apparentemente insanabile frattura. Faccio un paio d'esempi: il primo si chiama Napoli, la squadra di una città che - vista la qualità di gestione del club - potrebb'essere piuttosto Lugano o Stoccarda: al San Paolo s'accendono le fiammelle della speranza tricolore, a Bagnoli si alzano le fiamme malavitose dal rogo della Città della Scienza. Secondo esempio, la Juventus che, felicemente italianissima, va per l'Europa da anni, e oggi con particolare intensità, recando i segni del buon lavoro, dei saggi investimenti e del successo (e si ha motivo di sperare in un Milan altrettanto positivo contro il Barcellona ormai senza veli) mentre l'Altra Italia piange miseria, arrossisce spesso di vergogna, trema al pensiero che lo spread l'avvicini alla Spagna sinistrata. La Juventus è sempre stata italiana, anche quando nelle sue file militavano assi stranieri, e si permetteva addirittura il lusso di dotarsi di un fuoriclasse francese di autentiche radici italiane: Michel Platini era in fondo un “oriundo”, come Monti, Orsi, Sivori. L'altra sera Antonio Conte ha ulteriormente sfidato l'italica Babele pallonara schierando Buffon, Barzagli, Marrone, Bonucci, Peluso, Pirlo, Padoin, Matri, Quagliarella insieme agli “esotici” Vidal e Pogba, ottenendo il diciottesimo successo di fila di una Juve che negli anni d'oro del dopoguerra sapeva solo vincere italiano e ha dovuto fare una lunghissima anticamera prima di conquistare l'Europa e il Mondo e realizzare un palmare's degno dell'aristocrazia planetaria. Tutto questo, secondo tradizione, infoltendo di assi bianconeri le Nazionali “mondiali” e “provinciali”, vittoriose o vinte, senza mai rinunciare alla sua italianità anche dal punto di vista tattico, sapendo unire a potenti linee offensive reparti difensivi inespugnabili nel nome di maestri come Carcano, Parola, Trapattoni, Lippi, Capello. E Antonio Conte, naturalmente.
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