La forza di rialzarsi in due magliette intrise di sudore e fatica
mercoledì 28 giugno 2017
Ci sono traiettorie, perfette o imperfette, felici o dolorose, che in qualche modo lo sport sa chiudere in maniera romantica, struggente, simmetrica. Domenica scorsa erano passati soltanto 75 giorni dall'11 aprile, quando il general manager della squadra ciclistica Astana, Alexander Vinokourov, annunciava ufficialmente che Fabio Aru, il capitano, non ce l'avrebbe fatta. Un infortunio al ginocchio sinistro lo avrebbe tenuto fuori dall'edizione numero 100 del Giro d'Italia, quello con la tappa iniziale programmata proprio nella sua Sardegna. Un dolore enorme per Fabio, ma senza soluzione. Così, al suo posto, il team kazako avrebbe scelto per il ruolo di capitano Michele Scarponi, 37 anni, un giro vinto nel 2011 "a tavolino" in virtù della squalifica di Contador per doping e l'anno prima gregario decisivo per la vittoria di Vincenzo Nibali. «I programmi non cambiano – dichiarava il manager – non vediamo l'ora che il Giro abbia inizio». Anche Michele non vedeva l'ora, tanto che sei giorni dopo avrebbe perfino vinto la prima tappa del Tour of the Alps dimostrando uno stato di forma psicofisica ideale per far succedere ciò che tante volte nello sport succede: un infortunio, un imprevisto che capita al presunto protagonista e qualcun altro che trasforma quel problema in un'opportunità.
Il Giro, il 5 maggio scorso, è partito regolarmente, ma senza Michele Scarponi. Il 22 aprile, undici giorni dopo quell'annuncio e cinque giorni dopo quella vittoria, Michele se ne andava da questo mondo travolto da un furgone nella sua Filottrano, durante un allenamento. Fabio Aru deve aver rapidamente ridimensionato il dolore di un piccolo dramma sportivo causato da un ginocchio dispettoso, di fronte alla tragedia sconfinata di un ragazzo volato via troppo presto. Anche perché, qui a terra, rimanevano una mamma e due gemellini di cinque anni, rimasti lì ad aspettarlo dividendosi la maglia ciclamino portata loro in regalo dal papà, proprio grazie a quella sua ultima vittoria sulle Alpi. Talvolta lo sport si dimentica di regole, protocolli, tattica, strategie. Succedono cose che rovesciano il tavolo e probabilmente qualcosa del genere è successo nella testa del campione sardo. Forse perché anche lui aveva ricevuto in dono una maglia da Michele Scarponi, qualche mese prima, a Sierra Nevada. Una maglia azzurra dell'Astana, il loro club. Fabio Aru quella maglia ricevuta in dono da Michele, l'ha voluta indossare alla prima occasione utile: il campionato italiano, domenica scorsa. E sulle colline moreniche di Ivrea, a grande sorpresa, Fabio ha vinto, diventando campione d'Italia. Si è commosso come un bambino dopo il traguardo, ha dichiarato che avrebbe restituito quella maglia "sudata da un campione italiano" alla famiglia di Scarponi. Fortunatamente il ciclismo è capace di regalare tutta la dignità residua alle parole sudore e fatica. Questo sport martoriato dal doping, sarebbe potuto scomparire almeno una mezza dozzina di volte e invece rinasce, sempre, dalle proprie ceneri. Sarà perché custodisce una certa genuinità e semplicità di chi mette quelle parole, sudore e fatica, al centro dei propri giorni, dal primo all'ultimo. Per questo crediamo in chi, stremato dalla fatica e dalla commozione pochi istanti dopo aver vinto, dedica la vittoria all'amico scomparso e lo ringrazia per quella maglia ricevuta in dono.
Il neo-campione italiano Fabio Aru, autorevole come un maestro, scandisce ai presenti una regola fondamentale: «La vita è fatta di momenti belli e brutti. L'importante è rialzarsi». In solo 75 giorni il mondo si è capovolto, ma Giacomo e Tommaso Scarponi, fra poco, possederanno due maglie vincenti: una ciclamino e una azzurra. Sudate, entrambi, da campioni veri. Serviranno un po' di anni, ma la reazione chimica di quel sudore diventerà la loro pozione magica. Quella che serve per imparare a rialzarsi, appunto.
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