domenica 2 febbraio 2020
Chiamiamola pure crisi del settantesimo anno. Da tre quarti di secolo l'Italia ha riconquistato la democrazia e all'inizio fu grande amore. Chi non andava a votare era considerato alla stregua di un disertore, votare era un dovere e si mormorava che, se non andavi alle urne, le autorità avrebbero indagato su di te, sanzionandoti. Dicerie, ma quello era il clima. All'inizio fu un amore geloso, passionale, esagerato perfino. C'era chi non si perdeva una tribuna elettorale e cominciava la lettura del giornale, anche quella considerata come una sorta di dovere civico, dalla politica e non dallo sport. Per la politica ci si accapigliava, si andava in massa ai comizi e si faceva il tifo quasi quanto per il ciclismo: tutti in salita a pedalare, op op op.
Poi certi demoni si risvegliarono, la violenza fece uscire il Paese dalla fanciullezza, una folle e turbinosa adolescenza lo avviò verso l'età adulta e la disillusione. La passione sfiorì e si assopì. Cresceva la sensazione che comunque nulla cambiava, il voto era ininfluente, gli eletti deludevano le attese. A poco a poco, anche molti tra coloro che avevano partecipato per amore presero a votare per rabbia. Non con il cervello ma con la pancia.
Oggi i votanti si assottigliano. I partiti sono nuvole che si gonfiano e dissolvono. Siamo nel tempo del tedium democratiae: la democrazia annoia, è una vecchia signora appassita alla quale dedicare soltanto, a volte, una carezza svogliata. E a qualcuno conviene, perché se cala la passione, cala anche il desiderio di controllo; e chi persegue i propri interessi ne approfitta: meno votanti ci sono e pure svogliati, più facile è manipolarli. «I nuovi distruttori della democrazia – scrive la giornalista turca Ece Temelkurian su "Internazionale" – non perdono tempo con brogli elettorali o con la propaganda. Manipolano l'agorà democratica che dovrebbe dare forma ai fatti, facendo in modo che diventi un'arena in cui i fatti vagano come orfani indifesi».
Sempre più cittadini si chiedono dunque che senso abbia votare, se tutto – gli sussurrano – viene deciso in Europa, dalle multinazionali, dalla finanza internazionale o da Soros e i suoi amici. Allora possono perfino dar retta a chi suggerisce la formula magica dell'uomo solo al comando, e mostra stati dove la politica "funziona" nel senso che i governi sono stabili, stabilissimi perbacco: c'è chi non si schioda dal trono da vent'anni! Inutile mostrare quanto sia assurdo, e mortale, barattare la libertà con una parvenza di ordine. A chi non ha la voglia, il gusto, la passione di pensare, la libertà di pensiero non è un bene per cui vale la pena lottare. Chi se ne importa? La stessa verità, allora, diventa un dettaglio ininfluente nell'arena politica. E risvegliare la passione dove è assopita, ridando fuoco a una fiaccola spenta, è pressoché impossibile. Al gran mercato della cosa pubblica possiamo pure affidare il cuore non al prodotto ragionevole, bello, ricco di ideali, ma al brand di moda additato dall'influencer più scaltro. Ben venga l'uomo forte, ben venga la democratura.
È vero, la democrazia è imperfetta. Lo sapeva bene quel politico imperfetto ma geniale di Winston Churchill, che conobbe più sconfitte che vittorie e sapeva ironizzare su entrambe: «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, ed è vero. Lo è. Eccezion fatta per tutte le forme sperimentate finora». E per molte che non fece in tempo a sperimentare, temiamo. Eppure oggi pure lui sarebbe con i resilienti, sulla barricata dei valori e del bene comune. In pochi? Ancora una volta, come nei cieli del 1939, potrebbero essere in molti, alla fine, a ringraziare quei pochi.
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