mercoledì 6 luglio 2016
Barbera e Dolcetto, nomi di vini storici che si rifanno al vitigno che ha il medesimo nome, non potranno essere utilizzati liberamente. Sembra un'ovvietà ed invece è una conquista, davanti al tentativo di riappropriarsi, in qualsiasi parte del mondo, dei prodotti dell'Italian wine food. Il governatore del Piemonte, Sergio Chiamparino, tornato da Bruxelles, ora è più sollevato rispetto all'inizio dell'anno, che paventava l'inizio di una gran confusione di etichette. Ma mentre col vino per ora si tira un sospiro, non altrettanto accade con il formaggio, in particolare col Bitto, “storico” cacio della Valtellina. E proprio la parola “storico” è al centro di un contenzioso fra produttori. Da una parte una dozzina di piccoli con 1.500 forme l'anno, che ha mal digerito il disciplinare di produzione della Dop; dall'altro il Consorzio che raduna altri produttori, alcuni anche nuovi. Dal 2000 a oggi sono volate carte bollate, multe, e il paradosso è che tutto è andato a discapito di chi il Bitto lo produceva secondo i crismi di un'antica pratica. Ora, il gruppo di Gerola Alta, dove ha sede (ma occorre parlare al passato) il gruppo del Bitto storico, deve cambiare nome. La stessa cosa accadde con il Ciauscolo. Ottiene l'Igp, arriva un disciplinare e di colpo chi produceva quel salume marchigiano secondo ricette locali è fuori regola: può chiamarlo soltanto Salame morbido. Ma a rigor di logica sarebbe più giusto il contrario: i produttori tradizionali continuino a chiamare il prodotto come lo hanno sempre chiamato, anche perché è grazie a loro, in molti casi, che si è accesa l'attenzione ed è cresciuta la reputazione del prodotto, mentre l'Igp o la Dop, se modifica sistemi di produzione, dovrebbe inventarsi qualcosa di nuovo. Anche perché dietro a molte Dop e Igp ci sono realtà industriali che potrebbero ben supportare l'affermazione promozionale di un prodotto, nuovo. Ma non succede così e Davide non sempre ha la meglio su Golia giacché nel marketing ci sono parole che valgono più di altre. In Lombardia, tuttavia, l'assessore all'Agricoltura, Gianni Fava, dopo infinite mediazioni sul caso Bitto, ha dichiarato: «Io non posso lasciar perdere quei 12 produttori. Se cambiano nome al loro formaggio, perché costretti, sosterrò il nuovo marchio e la sua affermazione». Chapeau! Da questo punto di vista si capisce bene quanto le De.Co. (leggasi Denominazioni Comunali) siano una sorta di disturbo, nel momento in cui codificano il prodotto di una piccola realtà. Va tutto bene, purché il prodotto non diventi buonissimo. In tal caso bisogna attendere che sia l'investitore di turno a trarne vantaggio. E le leggi del marketing mettono sotto scacco quelle della tradizione, secondo il principio che bisogna promuovere il Made in Italy. Ma il Made in Italy non è forse un insieme di specificità?
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