domenica 8 luglio 2018
Nuvole da temporale finalmente ingrassano il cielo, sopra l'altopiano. L'aria appare magra e pallida, come i corpi dei bambini emaciati, che paiono piccoli angeli infarinati da polvere di cenere e sabbia gialla, ognuno con in mano la sua tanica sbeccata, il suo piatto di plastica consunto. Tutto va esasperatamente avanti con il ritmo di sempre. Neutra indifferenza. La vicinanza della morte rende tutti solo un poco più prudenti. Corpi molli, concavi per la fame, con le ginocchia acute come bielle, avanzano nel letto del fiume. Sinuoso e secco come le vene di una mano scarna, che tra le dita tiene lembi filamentosi di materiale plastico consumato dal troppo utilizzo. I cammelli immergono le loro spesse labbra screpolate dalla sete nelle pozze di fango che si induriscono e si spaccano sotto l'implacabile arsura, accanto a sponde dove giacciono abbandonati contenitori e imballaggi di materiale inquinante, che impiegherà centinaia d'anni per degradarsi. Si alza il vento, gli arbusti rachitici si rivestono di rifiuti e stracci, cartacce, buste e bottiglie di plastica.
Non ricordo più se era la consueta carestia che dilagava in Etiopia o che infestava il Niger, ma il vento che spazzava le carcasse degli animali sparse ovunque era sempre uguale anche nel suo certosino lavoro di raccoglitore della spazzatura di plastica che contaminava quel lembo di terra, lontana e sofferente.
Sappiamo, così ci dicono chi studia questo fenomeno, che ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani e che esiste anche un'"isola" di plastica che galleggia nel Pacifico, grande tre volte la Francia. E poi sappiamo che le microplastiche contaminano 3 pesci su 4 e che, alla fine, nella catena alimentare, arriveranno anche sulle nostre tavole. Nei mari di tutto il mondo oggi ci sarebbero oltre 150 milioni di tonnellate di materie plastiche che avvelenano l'acqua e la sua natura. E anche nelle acque dei fiumi, nei laghi, nelle savane e nei deserti. Nel mondo vengono prodotti, ogni anno, 300 milioni di tonnellate di plastica di cui un terzo verrà abbandonato.
Ruanda è una parola che ricorda momenti terribili della storia africana del secolo scorso: il Novecento sfigurato da stermini e genocidi di popoli in proporzioni inumane. Esattamente da dieci anni, il Ruanda è diventato uno dei Paesi tra i più virtuosi e puliti di tutta l'Africa. Per mantenere l'ambiente pulito, come obiettivo di sviluppo, ha bandito l'utilizzo dei sacchetti non biodegradabili e tutti i materiali di imballo in plastica. Sostituiti con materiali come carta, foglie di banano, papiri, o prodotti biodegradabili. Un obiettivo di sviluppo che ha permesso impresa e lavoro.
Evidentemente, l'applicazione del divieto ha sorpreso la più parte degli utilizzatori sia i clienti sia i venditori e la messa in funzione non è stata semplice, perché, come spesso accade, per certi prodotti non c'erano alternative. Ma le autorità hanno mostrato una determinazione tale che alla fine soluzioni sono state trovate. Ora, quando se ne parla, tutti ti dicono: «Quanto era brutto e sporco prima, con tutti quei sacchettini neri (erano i più utilizzati) sparsi in ogni luogo, pendenti dai rami degli alberi lungo le strade». Questo è stato il primo passo verso un sistema che ha fatto di Kigali prima e del Ruanda poi la città e il Paese più puliti dell'Africa. Una reputazione che fa invidia a tutto un continente. Decisamente, un esempio da moltiplicare.
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