mercoledì 28 marzo 2007
L'individualismo comprende solo una parte dell'uomo; il collettivismo comprende l'uomo solo come una parte. Né l'uno né l'altro riescono a comprendere l'uomo come un essere intero, come un tutto. Nato a Vienna nel 1878, il filosofo ebreo Martin Buber - che nel 1938 si trasferì a Gerusalemme ove morirà nel 1965 - è noto soprattutto per aver fatto conoscere le leggende e i racconti dei Chassidim, una corrente mistica del giudaismo mitteleuropeo. Egli, però, era anche un pensatore vigoroso, attento a esaltare il dialogo come il motore della comunione e della pace tra i popoli, pur nella diversità delle culture. In questa linea va anche il suo saggio Tra uomo e uomo, dal quale ho tratto uno spunto di riflessione significativo per le nostre relazioni. Siamo reduci dall'esperienza del comunismo che ha appiattito l'uomo nella collettività, rendendolo solo come una particella del popolo, spogliandolo di ogni individualità creativa e libera. Ma abbiamo vissuto e talvolta ancora sperimentiamo in Occidente un liberalismo esasperato, in cui le regole sono solo quelle del mercato, in cui chi è più abile o dotato sopravanza e prevarica sugli altri, dimenticando che l'uomo è di sua natura un essere aperto al prossimo. Due estremi che riducono e impoveriscono «l'uomo intero», che è contemporaneamente un'identità precisa ma anche membro dell'umanità, che è dotato di libertà ma ha bisogno pure di amore, che è singolo ma anche comunità, che è sì una cellula autonoma ma di un corpo vivente più vasto. Questo «uomo intero» deve essere creato dentro di noi con sapienza ma dev'essere anche riconosciuto negli altri che ci circondano.
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