domenica 11 luglio 2021
Corsia sei, 100 metri in un soffio di fiato, il collo taurino e le vene che scoppiano, cranio rasato, gli occhi gialli iniettati di rosso. Nero come tutti quelli che corrono per vivere, giamaicano d'origine con la bandiera del Canada da sventolare: Ben Johnson ha 27 anni quando scatta dai blocchi di partenza della gara più esplosiva di Seul 1988, l'Olimpiade della vergogna e del sangue marcio. A dieci metri dal traguardo alza il braccio destro, lo punta contro il cielo e guarda indietro gli avversari con disprezzo. Ha un record da prendersi e un segreto da non far scoprire. «Quando entro in pista sono furioso – dice –. Non importa perché e con chi. Nella vita c'è sempre un motivo per avere rancore...». Brutto modo per incorniciare una medaglia d'oro olimpica: il cronometro segna 9''79, un primato fantastico. Se solo fosse pulito. Ben Johnson va a dormire sotto una coperta di gloria, ma si sveglia nudo, sporco, finito. Le sue analisi sono risultate positive: stanozolol, uno steroide anabolizzante. Non è il primo dopato dei Giochi, non sarà l'ultimo. Ma se è l'uomo più veloce della terra, fa più impressione. Lo sport perde la sua innocenza nello spazio breve di cento metri, Johnson scappa da Seul tra gli insulti. Il processo che segue diventa un evento mediatico in diretta tv: 836 giorni di squalifica. Tornerà in pista nel '91, due anni senza tempi straordinari. Poi nel 1993 ci ricasca: ancora steroidi. Non se l'è sentita di provare a rinascere. È rimasto quello che era. Un velocissimo debole, con i cento metri del peccato sotto i piedi.
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