martedì 28 dicembre 2021
L'accordo annunciato fra i governi della Danimarca e del Kosovo, che consentirà allo Stato scandinavo di trasferire 300 detenuti dalle proprie carceri a quelle del Paese balcanico in cambio di 210 milioni di euro, ha comprensibilmente destato scalpore. È la prima volta, a memoria europea, che nel Vecchio Continente si verifica un evento del genere. C'è chi ha parlato di deportazione, chi si è spinto fino a scherzare su un nuovo modello di "delocalizzazione", chi ha gridato allo scandalo per il rischio di violazione dei diritti umani, considerando che la situazione carceraria a Pristina e dintorni non è certamente paragonabile a quella del Nord Europa.
Da Copenaghen si è giustificata l'iniziativa con la necessità di ridurre il sovraffollamento delle prigioni locali, che però, secondo le statistiche europee in materia, non sembra così drammatico. In base agli ultimi dati disponibili, in Danimarca non si supera la soglia del 100 per cento della capienza, a differenza di quanto avviene in Italia (120 per cento il tasso di occupazione) o a Cipro (135). A fine 2019, inoltre, si contavano circa 64 detenuti nei reclusori danesi ogni 100mila abitanti, contro una media europea di 112, con punte di 227 in Lituania e 203 in Repubblica Ceca (l'Italia era a quota 100).
Molto più convincente è la giustificazione di voler tagliare la presenza di immigrati, visto che nei penitenziari danesi circa il 30 per cento degli "ospiti" è straniero, a fronte di una media europea del 20. Anche se si registrano tassi ben maggiori, fino oltre il 50 per cento, in Austria e Grecia. Del resto il ministro competente ha parlato esplicitamente di un "segnale" destinato agli immigrati, perché non si illudano di poter delinquere a piacere in terra danese, sperando di potervi scontare la pena e poi rimanervi.
Il caso di "export" penitenziario potrebbe almeno contribuire a ridestare l'attenzione sulla situazione delle prigioni dell'Unione, al termine di un biennio terribile di emergenza sanitaria, che a quanti l'hanno vissuta dietro le sbarre ha senza dubbio inflitto un aggravio di sofferenza. In Italia ne abbiamo avuto un doloroso riscontro nella primavera dell'anno scorso, con la rivolta e la successiva repressione in alcune case di pena, costate anche diverse vite umane.
Purtroppo le ultime notizie dal fronte Covid non promettono certo miglioramenti a breve termine. Ma non si registrano neppure, da parte dei vertici di Bruxelles e dalle sedi parlamentari Ue, particolare interesse o speciali indicazioni destinate al mezzo milione di detenuti nei 27 Paesi membri. La loro gestione è lasciata alle amministrazioni nazionali, che dallo scoppio della pandemia in poi si sono mosse in ordine sparso. La stessa comunicazione di dati su contagi, ricoveri e decessi, così minuziosa e martellante per altre fette di popolazione, è risultata scarsa o episodica per i penitenziari.
Nei giorni scorsi è stata diffusa anche una ricerca dell'"European Data Journalism Network", sulla gestione della pandemia nelle carceri europee. Ne è emersa la conferma di provvedimenti in stretta chiave emergenziale – sospensione delle visite, regimi di isolamento rafforzati, cancellazione di ogni attività di istruzione e ricreativa – a fronte di scarsa attenzione a misure di prevenzione specifiche. Se resta valido il monito di Voltaire, secondo cui il grado di civiltà di un popolo si misura dalle sue prigioni, c'è in abbondanza di che riflettere.
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