domenica 4 settembre 2011
Ci sono giorni che mi sento bimbo, l'ultima cosa sulla terra, l'ultima arrivata, quella senza importanza e tutto è bellezza, tutto meraviglia. Ci sono giorni che mi sento vecchio, stanco; troppo grava sulle mie spalle come tragica sequenza. Certo non mi sento solo. Questa estate 2011 è per me una stagione nuova. L'equilibrio costruito in questi ultimi anni attorno le necessità, in perenne divenire, di una madre anziana e malata è crollato. Compiuti i 90 anni, resa l'anima a Dio, mia madre è morta. Abbiamo officiato il rito della sepoltura, abbiamo rinsaldato il vincolo che lega indissolubilmente i vivi ai morti ai non ancora nati nell'attesa dell'Apocalisse, lo svelamento, la fine dei tempi. Ringrazio Dio per avermi concesso questi anni con Lei nel tempo del suo bisogno quasi che, viste le mie mancanze con il II e il III comandamento, mi fosse stata offerta la possibilità di rifarmi con il IV. Lunghe stagioni, giorno dopo giorno, sempre una grazia sempre una pena. Azioni quotidiane, gesti ripetuti fino a diventare ritualità domestica capace di confortare la mancanza ormai totale di altre ritualità. Un tempo improduttivo riscattato da un sentimento profondo quanto la mia umanità: l'amore filiale. La scoperta, materiale, carnale, del senso del dovere ha ribaltato ogni mio pensiero, cresciuto sempre più insoddisfatto, nel regno dei diritti. Giorni trascorsi tra le stanze di casa, l'aia, le visite al cimitero; il precetto festivo; passeggiate sempre più brevi, sempre più lente, in perfetta sintonia con il nostro conversare fino agli ultimi mesi quando letto e poltrona sono diventati unico spazio, sempre più silenzioso. Vicino casa, la stalla dove i cavalli mi hanno assicurato la quota minima di energia fisica e molte occasioni per il nostro colloquio fino ad essere pretesto per percepire l'ultimo sillabare della Sua voce, un - sì - un - va bene -. Tra vuoti di memoria, buchi di conoscenza, voragini temporali, ciò che ha retto fino alla fine è riducibile alle orazioni quotidiane, l'affetto, la casa, la stalla. Era pur sempre la moglie di un pastore, mia madre, ed è vissuta e morta ben sapendo che Iddio, e tutto ciò che è vitale, è calore, è amore. Anni di respiro arcaico: montagne, animali, presenze arcane, in cui pensare la mia vita antecedente ne faceva risaltare le sciocchezze, le mancanze sostanziali, le inconcludenze; e pensare al dopo sarebbe stato un esercizio più che sgradevole. Se un dopo ci sarà, mi dicevo, lo benedirò. E' arrivato. Mi è stato chiesto di scrivere per "Avvenire" una rubrica settimanale che, di comune accordo, abbiamo titolato: "dal Crinale". Ho accettato con gioia mista a timore. Cosa ci si aspetta da me? Da 30 anni mi guadagno da vivere, pane e companatico, scrivendo. Prima canzoni e le molte parole che fanno loro contorno, poi scritti d'occasione, riflessioni, racconti. La maggior parte delle parole che ho scritto trovano nella mia voce il ritmo e la cadenza che le fanno vivere. Fatico ad immaginarle mute; stampate e lette mentalmente mi sembrano sciupate. Affascinato dalla oralità dovrei essere riconoscente alla dimensione tecnologica della comunicazione ma ne provo repulsione fisica. Se non posso essere cantore, lettore, fronte ad un uditorio di persone, carne e spirito, posso solo scrivere e scrivo a mano. La biro che scivola sul foglio accompagna i tempi del mio pensare e un'occhiata alla qualità calligrafica è il miglior metro di giudizio circa la quantità di lavoro ancora necessario. Cosa mi aspetto da "Avvenire"? un onesto rapporto; se il caso, che non mi auguro, l'interruzione di questa collaborazione che accetterò in qualsiasi momento con qualsiasi motivazione. Non è detto che questo possa essere per me un lavoro. Ho molto apprezzato la formulazione del nostro contratto: i limiti della richiesta, qualche domanda e relativa risposta, sorrisi, una stretta di mano con sguardo interlocutorio. Un affare tra gentiluomini d'altri tempi.
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