venerdì 16 febbraio 2007
Gli uomini mettono nella loro automobile non meno amor proprio che benzina. L'automobile è divenuta ormai come un articolo di vestiario senza il quale ci sentiamo nudi, incerti e incompleti. Ho messo insieme oggi due affermazioni di autori diversi che ho incrociato nella lettura di un unico saggio. Entrambe le dichiarazioni, pur avendo origini differenti, convergono verso un unico simbolo, tipico della nostra civiltà, l'adorata automobile. Sia lo scrittore e giornalista francese Pierre Daninos, sia il famoso studioso canadese dei mass media Marshall McLuhan, delineano l'aspetto mitico di questo oggetto che spopola nella pubblicità e che è diventato l'emblema del nostro tempo, oltre che una componente decisiva dell'economia e, ahimè, anche della degenerazione ambientale. Come suggerisce Daninos, all'automobile molti riservano un amore che spesso non dedicano ai loro simili. Basta solo assistere al rituale della manutenzione della loro macchina, all'isteria che li colpisce se essa è sfregiata, alla mutazione umana che si registra quando costoro sono al volante e si abbandonano a furori omerici contro gli altri che attentano al loro incedere. Ormai l'auto fa talmente parte della vita di una persona che ha ragione McLuhan a dire che essa è un vestito, senza il quale non si entra nel mondo e non ci si sente sicuri. Tutto questo ci fa capire un elemento di ordine generale, quello della dipendenza dalle cose che, se da un lato, è giusta e reale, dall'altro però può trasformarsi
in subordinazione e in servitù fino al punto da confondere la scala dei valori e la stessa dignità. Una
conseguenza, dunque, più seria di quanto a prima vista possa sembrare.
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