mercoledì 2 agosto 2017
Idati sono allarmanti e giustificano in pieno il titolo del libro di Vittorio Meloni, Il crepuscolo dei media (Laterza, pagine 144, euro 11,00). Nel periodo 2007-2016 il numero di copie vendute dai primi sei quotidiani italiani si è più che dimezzato, attestandosi a una quota complessiva di poco superiore al milione di unità. Discesa sempre più scivolosa, se nel periodo gennaio-dicembre 2016 le vendite degli stessi quotidiani sono calate del 12 per cento rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente. A conferma, la spesa delle famiglie per libri e giornali, dal 2007 al 2015, è scesa del 39 per cento.
I quotidiani mettono sempre in prima pagina la politica, ma i sondaggi rilevano che solo il 10 per cento degli italiani si dichiara interessato alla politica: del resto, dalle ricerche di Tullio De Mauro risulta che circa l'80 per cento degli italiani in età lavorativa non è dotato di «effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo» talché alcune decine di milioni di cittadini dai 18 anni in su non sono in grado di comprendere compiutamente addirittura il senso del titolo di un grande quotidiano.
L'approdo al giornale online, afferma Meloni, «muta anche la natura dell'interesse che lo genera: una quota non trascurabile di utenti non sta cercando notizie o commenti, non è lì per leggere, ma per curiosare». Anche la tv è assediata: i canali nazionali che erano una decina prima del 2017, nel 2015 sono arrivati a 185; anche per questo, gli ascolti sui sei primi canali generalisti sono diminuiti dal 20 al 40 per cento. Tiene meglio la diffusione radiofonica, appannaggio delle emittenti private: nel 2016, la sola Rtl, con quasi 7 milioni di ascoltatori, eguaglia la somma degli ascoltatori di Rai Radio1 e Rai Radio2, mentre Rai Radio3 lotta per rimanere nella prima quindicina. Pesanti le conseguenze sugli investimenti pubblicitari, scesi complessivamente di circa il 37 per cento, percentuale che sale al 65 per cento se riferita alla sola carta stampata.
La rivoluzione è opera dei social media, cioè delle applicazioni Internet come Facebook, Twitter e gli infiniti blog, verso i quali si dirigono anche gli investimenti pubblicitari, con il rischio che l'opinione pubblica anneghi in un mare di notizie della cui fonte non si conosce l'attendibilità. Da qui la crescente apprensione, anche da parte di Facebook, per il dilagare delle fake news (in italiano, “bufale”).
Questo assordante rumore di fondo ha fatto perdere l'aura sacrale della «notizia» diffusa dai media tradizionali, tanto più che i social tendono a trasferire sul piano delle emozioni il racconto un tempo affidato ai fatti. «I fatti non funzionano», ha tagliato corto Arron Banks, uno degli ideatori della campagna pro-Brexit, citato da Meloni. «Bisogna essere connessi con le persone emozionalmente».
E tuttavia, osserva Meloni – dal 2005 direttore delle relazioni esterne di Intesa Sanpaolo –, in attesa che i social diventino essi stessi editori, «la capacità di raccogliere informazioni e di scriverne è, ancor oggi, la competenza più importante dell'editoria, sia essa tradizionale o già solo digitale». Infatti, «senza questi contenuti, soprattutto quelli più complessi e analitici, nessuna piattaforma digitale e social può aspirare a diventare una vera media company. Per questo, praticamente da subito, i protagonisti della rete i loro utenti si sono appropriati di questi contenuti, trasformandoli in segmenti di informazioni in libera circolazione sul web».
Mi sembra di poter concludere che per capire almeno un po' da che parte va il mondo, giornali e libri come questo di Vittorio Meloni restano fondamentali per chi non rinuncia all'esercizio della razionalità. Infatti, come ha scritto Evgeny Morozov, «gettarsi nei flussi senza fine di Twitter non è molto diverso dall'acquistare compulsivamente libri nella speranza illusoria che un giorno li leggeremo».
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