mercoledì 31 agosto 2011
Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei stare seduto per ore a guardarlo.

«Eravamo in tre e lavoravamo come un sol uomo. Cioè due di noi poltrivano sempre». Questa battuta del comico americano, Groucho Marx, fa il paio con quella che abbiamo sopra proposto e che è presente nel delizioso romanzo Tre uomini in barca (1889) dello scrittore inglese Jerome Klapka Jerome. Parliamo di lavoro proprio oggi, quando si cala idealmente la serranda sul mese tradizionalmente riservato alle ferie e si riaprono i cancelli delle fabbriche. Non vogliamo, però, imbarcarci a toccare un tema “pesante”, che ha spesso ai nostri giorni risvolti drammatici, segnati dall'incubo della disoccupazione. Ci fermeremo, molto più lievemente, sull'antipodo dell'operosità che il lavoro comporta, ossia su uno dei vizi capitali, la pigrizia o inerzia. L'italiano più nobile usa il termine “accidia” che deriva dal greco akedía e significa una noncuranza, una trascuratezza un po' scoraggiata e triste.
Si ha, così, quella che l'antica tradizione ascetica considerava come un grave rischio spirituale. È, infatti, quella mollezza anche fisica che rivela un allentamento dell'anima la quale abbandona l'ascesa erta e severa della virtù e si abbandona alla valle quieta e ombreggiata dell'indifferenza, della mediocrità, della piattezza. È, questa, una sorta di diagnosi anche dell'apatia della società moderna che, dopo essere passata attraverso frenesie ed eccessi, piomba nell'abulia, nella svogliatezza e fin nella nausea o nella noia (è significativo che questi due ultimi vocaboli abbiano dato il titolo ad altrettanti romanzi emblematici della crisi del Novecento, rispettivamente di Sartre e Moravia). Siamo ben lontani dal “dolce far niente”; è, invece, un gorgo grigio che attira e spegne gli aneliti dell'anima. Vale, allora, il monito paolino: «Svegliatevi dal sonno… La notte è avanzata e il giorno è vicino!» (Romani 13, 11–12).
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