L'antropologia “poetica” di Vito Teti e l'universale nella memoria dei luoghi
venerdì 30 giugno 2017
Abbiamo bisogno di universalismo umano, umanistico e umanitario nel confronto e dialogo fra culture, forme sociali, storie e fedi religiose. Ma senza una percezione viva e responsabile sia del “qui e ora” che del nostro passato, ogni proposito di universalismo rischia l'astrazione. La realtà è fatta di luoghi e tempi specifici, di vicende
individuali
o comunitarie, di cognizione, amore e cura
dei luoghi in cui viviamo: che è il solo modo per “incarnare”, circostanziare il senso del pianeta nel quale ci è dato di esistere. Il mondo è un insieme di innumerevoli mondi e la storia è un tessuto di storie. Per riflettere su tutto questo, consiglio di leggere il libro di Vito Teti
Quel che resta. L'Italia dei paesi,tra abbandoni e ritorni (Donzelli, pagine 308, euro 30). Un libro che fa dire a Claudio Magris, autore della prefazione, che forse gli antropologi «sono i grandi poeti della modernità» perché «sono insieme storici e archeologi che scavano nello spazio e nel tempo, nel passato e anche nel presente». Con Antonella Tarpino, storica con cui ha ripetutamente collaborato, Vito Teti è oggi in Italia il maggiore e più ispirato studioso di luoghi abbandonati e della loro memoria. Geografia, storiografia, osservazione diretta e indagine culturale in questi studi si fondono. Alle spalle di Teti c'è uno scrittore ingiustamente oggi poco letto, anche lui calabrese, come Corrado Alvaro, di cui voglio almeno ricordare i magnifici ritratti di nostre città raccolti in
Itinerario italiano. E c'è Walter Benjamin, filosofo della malinconia retrospettiva e del procedere della storia come produttrice di rovine. Per non parlare del maggiore dei nostri antropologi e studiosi del meridione, Ernesto De Martino, l'autore di Sud e magia
e delle fondamentali ricerche incompiute sulle “apocalissi culturali” pubblicate postume nel volume La fine del mondo (1977). Proprio da un suo scritto degli anni quaranta, L'etnologo e il poeta, Teti ricava l'epigrafe per il suo libro: «Coloro che non hanno radici, e sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell'umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l'immaginazione e il cuore tornano sempre di nuovo».
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