L'“avarizia” che limita lo sperpero vizioso La lezione di Bracciolini
venerdì 18 settembre 2015
Il dialogo Sull' avarizia di Poggio Bracciolini scritto nel 1429, ora riproposto dall'editore Aragno a cura di Claudio Piga e Giancarlo Rossi, con testo latino a fronte e un documentatissimo saggio introduttivo, ci riporta alle origini dell'Europa moderna, quando la nuova cultura umanistica cominciava a contrastare, argomentando e satireggiando, l'immobilismo economicamente parassitario della Chiesa. Analizzare, discutere le virtù e i vizi era un modo di delineare il profilo di un'umanità più sana e più attiva, capace di imparare sia dai grandi scrittori dell'antichità pagana che dai Padri della Chiesa. In uno dei passi salienti del dialogo, in cui Bracciolini esprime con tagliente vigore polemico la sua posizione, si parla di «certuni, grossolani e rozzi, i quali, fra questi ipocriti, buffoni e ciarlatani ambulanti, col pretesto della religione, si procacciano il vitto senza fatica e sudore, mentre predicano la povertà e il disprezzo dei beni. Perché in realtà guadagnano più che abbondantemente! Non infatti su questi uomini, parassiti e fanatici, che sosteniamo pacificamente col nostro lavoro, dobbiamo basare la società: ma su coloro che sono idonei alla conservazione del genere umano». Trovo irresistibile la tentazione, per rendere più attuali queste parole, di sostituire alla parola “religione” la parola “politica”. Instancabile scopritore di antichi manoscritti (fra cui il De rerum natura di Lucrezio) Poggio Bracciolini fu a Roma “scrittore apostolico” addetto alla stesura di bolle papali e di note pontificie. Certo queste sue opinioni erano dunque audaci e poco prudenti. La forma dialogica, ripresa da una tradizione che andava da Platone fino a Cicerone e Luciano, permetteva almeno in parte di schivare la responsabilità di certe affermazioni, che potevano essere attribuite non direttamente all'autore ma a uno dei dialoganti. L'umanesimo cristiano operava allora una nuova sintesi culturale, in cui la riformulazione del conflitto fra vizi e virtù permetteva di considerare il lavoro umano, l'economia, la produzione, l'uso e lo scambio di beni materiali utili alla vita, come una virtù e una benedizione divina. Una temperata avarizia, da non confondere con l'avidità, poteva essere utile a evitare la prodigalità, lo sperpero vizioso. Quale filosofo potrebbe oggi connettere qualche virtù morale a un'economia planetaria i cui meccanismi sembrano sfuggire al controllo umano?
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