venerdì 29 ottobre 2010
Ce l'hanno con Andrea Agnelli. Dicono che parli da tifoso. Vergogna! Come si permette? Moratti no, Moratti è sempre stato sereno e obiettivo, soprattutto quando difendeva, ieri, l'"ammanettato" Mourinho o quando sostiene - ancor oggi - il buon diritto a metter sulle maglie dell'Inter lo scudetto «degli onesti» da altri detto anche «lo scudetto di cartone»; proprio quel simbolo tricolore che Agnelli vorrebbe indietro: è un derby di opinioni soprattutto dialettiche, questo, magari con qualche sviluppo pratico -vedi le futuribili Sentenze Napoletane - che in ogni caso non potrà modificare i verdetti della giustizia sportiva e semmai modificare le successive decisioni assunte da quei saggi poco saggi e soprattutto molto partigiani. Andrea è un presidente tifoso epperciò esagerato e forse anche censurabile? Ditemi di che pasta sono i suoi colleghi Zamparini, Cellino e De Laurentiis, ad esempio, o Rosella Sensi che addirittura si lancia in durissime critiche alla Lega di cui è vicepresidente vicario: certo le loro irose sortite, spesso indirizzate agli arbitri, non sono particolarmente signorili, ma si accettano - obtorto collo, direbbe Lotito - perché frutto di passione. Di tifo.
L'unico presidente non tifoso, alla fin fine, e che non può sparare corbellerie, è Maurizio Beretta, il presidente che i presidenti si sono dati proprio dopo avere appurato la sua assoluta neutralità corrispondente al suo totale disinteresse per la materia pallonara. (E lo si vede da come sta affrontando la delicata questione dello sciopero annunciato dai calciatori: sembra Marchionne a Pomigliano d'Arco). Andrea Agnelli ha sempre ragione quando difende l'onore - compromesso - della sua adorata Juventus, anche se arriva paradossalmente a illudere (non a illudersi, ne sono certo) i tifosi a proposito di future sentenze assolutorie per i fatti di Calciopoli. Andrea Agnelli ha deciso - purtroppo con grave ritardo - di fare quello che la presidenza della Juve avrebbe dovuto tentare subito: ovvero difendersi strenuamente, con tutte le armi legali possibili, nel processo sportivo del 2006 cui invece si presentò dichiarandosi colpevole e invocando, come nei filmotti alla romana degli anni Cinquanta - la Clemenza della Corte. Che fu invece inclemente. La presidenza, allora, era stata assegnata dalla Famiglia (Elkann) al mio amico Cobolli Gigli, un signore non padrone che non poté far altro che adattarsi alle superiori scelte quando l'avvocato difensore (il cui odiato nome viene ignorato dai mille blog juventini) chiese fosse risparmiata alla Juve l'ignominia della C accontentandosi di una collocazione fra i cadetti. A quei tempi ero colpevolista ma mi limitai a chiedere - subito - a John Elkann, il Padroncino, l'allontanamento dei dirigenti che avevano trascinato la società nello scandalo, Giraudo e Moggi; la Juve andò inspiegabilmente ben oltre, il che mi suggerì una personale indagine che mi portò a una conclusione amara e sgradevole: il disastro bianconero era l'esito di una lotta in famiglia iniziata il giorno in cui era morto Umberto Agnelli. Allora nessuno si ricordò di suo figlio Andrea, al punto che un importantissimo giornale arrivò a scrivere che «il nome Agnelli s'era estinto».
Varie peripezie famigliari - anche di natura giudiziaria e finanziaria - hanno portato a un cambiamento che sa di risarcimento. E quando Andrea, nominato presidente a furor di popolo per il nome che porta, ma soprattutto per la competenza che ha acquisito a fianco del padre, di Giraudo e di Moggi (colpevoli ma amici) si rivolge ai dodici milioni di tifosi juventini con il tono forse eccessivo del Primo Tifoso, dovrebbe solo premettere tre piccole parole: «Scusate il ritardo».
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