martedì 7 gennaio 2020
Mi hanno sempre favorevolmente colpito i ragazzi che pongono domande, perché queste, quando non siano dettate da ingenuità o superficialità, sono indice non solo di curiosità ma di insoddisfazione e quindi di volontà di crescere, e anche di nobiltà interiore: il domandare, si chiedeva Heidegger, non è forse «la pietà (Frömmigkeit) del pensiero»? Assistiamo quotidianamente e ovunque a dibattiti e interventi su temi rilevanti dove ciascuno non va oltre il proprio monologo urlato, appello tribunizio, comizietto senz'anima: senza il morso di un dubbio, la pausa di una riflessione, l'artiglio di una domanda. Siamo accerchiati da una folla di incompetenti e di ciarlieri che si affannano a dare risposte a domande che non ci interessano e che nessuno ha mai posto loro. È, questo, il tempo della vendita (e dei saldi!) delle risposte, non delle interrogazioni. A fronte della doxa rumorosa, della chiacchiera imperante e di una vera e propria anoressia del pensiero, urge imboccare la strada del rigore, abbassare il volume e dare il nome alle cose. Bersagliati e illusi da troppe risposte e da troppi perché causali, abbiamo bisogno di abitare le domande e i perché interrogativi. L'ars interrogandi è più rara e più difficile dell'ars respondendi, ma più ricca e risolutiva.
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