giovedì 8 settembre 2016
Commemorando a Brescia, a cinque anni dalla morte, la figura e l'opera di Mino Martinazzoli, il presidente Mattarella ha svolto alcune riflessioni che meritano di essere riprese. Anche tenuto conto del fatto che gli organi di stampa hanno, sì, dato rilievo alla sua trasferta lombarda, ma insistendo soprattutto sui profili politici per dir così estrinseci (quali la mancata partecipazione di alcuni sindaci leghisti) e finendo dunque per mettere in ombra proprio i profili specifici della giornata bresciana del Capo dello Stato.Ricordando in particolare l'impegno, a metà degli anni Ottanta, di Martinazzoli come ministro della Giustizia, il presidente della Repubblica ne ha sottolineata «l'attenzione alla gestione ordinaria dell'amministrazione del Ministero e dell'apparato della Giustizia, quella buona amministrazione quotidiana che costituisce tanta parte di uno Stato efficiente». Non era minimalismo, tale attenzione che ebbe il senatore-avvocato bresciano (sino a occuparsi della grandezza delle buste e del costo dei relativi francobolli!), quanto piuttosto il segno di un suo orientamento complessivo, volto a privilegiare, anche in tema di giustizia, un approccio mite, meno incentrato sulla norma e più sulla buona attuazione amministrativa. Martinazzoli stesso in più occasioni richiamò, citando uno scritto giovanile di Aldo Moro, la necessità «non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale» (con le evidenti conseguenze in tema di concezione del carcere e della pena detentiva, di giustizia riparativa, e così via). Mitezza, per lui, non era - e il presidente Mattarella lo ha sottolineato con decisione - sinonimo di debolezza e meno che mai di disimpegno. Basti pensare a un passaggio di un suo fortunato libretto pubblicato da Arel nel 1979, "Controcorrente Dc", in cui prendeva le distanze dall'enfasi sull'«uguaglianza della giustizia» a scapito dell'«uguaglianza della legge», mettendo in guardia contro «i rischiosi travisamenti» frutto di un'impropria «politicità della giustizia», e «tanto più micidiali perché sostenuti da un potere praticamente incontrollato». O a quando, qualche anno dopo, da ministro della Giustizia ricordò, in occasione dei 25 anni del Csm, che l'autonomia della magistratura «non deve diventare solitudine e isolamento, ma ricerca di nessi di collegamento e dialogo con gli altri segmenti dello Stato».Mitezza, dunque, come apertura e come sentimento del limite di ciascuna persona e di ciascuna esperienza, individuale o associativa: ricordare Mino Martinazzoli mi pare ancora oggi utile, per tutti.
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