domenica 28 ottobre 2018
Ero a Khartum. Gli eritrei del Fronte di liberazione mi avevano garantito che in due, tre giorni al massimo mi avrebbero scortato a Massaua liberata. La prima grande conquista della guerra contro l'Etiopia del dittatore Menghistu Hailè Mariàm. Nella capitale del Sudan, il clima era particolarmente faticoso. A mezzogiorno la temperatura superava i 45 gradi centigradi e l'unica alternativa era starsene chiusi in albergo con addosso un pullover di lana e non congelare per l'aria condizionata, esageratamente fredda.
Bisognava attendere con pazienza le ore notturne per riuscire a concedersi quattro passi camminando lungo le sponde che uniscono il Nilo bianco al Nilo azzurro. Dove sorge il "Palazzo bianco", la storica dimora del governatore Charles George Gordon. Il generale britannico più noto come Gordon pascià. L'uomo che aveva combattuto il commercio degli schiavi in Africa, affiancato dal suo luogotenente l'italiano Romolo Gessi e a san Daniele Comboni.
La mia spedizione con la guerriglia doveva cominciare da Port Sudan, sul Mar rosso, per poi ridiscendere la costa di quella che allora era ancora solo una provincia dell'Etiopia. La ribelle Eritrea. La data della partenza continuava a slittare. I miei accompagnatori erano in difficoltà a risalire il territorio eritreo, ancora sotto controllo delle truppe di Addis Abeba, per raggiungere Port Sudan dove, nel frattempo, mi ero trasferito. I caccia Mig dell'aviazione etiope dominavano cielo e terra e si poteva viaggiare in relativa sicurezza solo di notte.
A Port Sudan, l'attesa si faceva noiosa. All'epoca le antenne paraboliche per captare il segnale di una qualche tv internazionale erano merce rara e le ore non passavano mai. Non ricordo più come accade, ma venni a sapere che in città c'erano i missionari comboniani. Gli eritrei mi avevano consigliato di non farmi vedere troppo in giro, era meglio stare a casa. Uno straniero dalla pelle chiara che passeggia per una città dove gli occidentali si contano sulle dita di una mano e mezzo, avrebbe suscitato curiosità e troppe domande sul motivo di quella presenza sulla linea di un conflitto armato. Ebbi modo, comunque, di organizzare una visita presso la missione cattolica.
Era circondata da un alto muro di cinta fatto di mattoni rosso bizantino, aggraziato da cespugli fioriti di bouganville. Un anziano missionario italiano mi diede il benvenuto e mi invitò ad accomodarmi in casa, per offrirmi un tè abissino. Un infuso di fiori d'ibisco. Quel giorno, una squadra di muratori sudanesi, ovviamente musulmani, era impegnata in lavori di ristrutturazione della parrocchia cattolica. Il cortile era un cantiere edile che traboccava di rumori e voci. Ad un tratto il tramestio s'interruppe improvvisamente e dei muratori non ci fu traccia più. Spariti. Stupito di ciò, l'amico missionario disse: «Vado a controllare. Strana questa improvvisa quiete».
Dopo mezz'ora, il padre comboniano ritornava. Ridendo a crepapelle, raccontava che incuriosito dai rumori provenienti da un deposito dietro la casa, dopo averne spalancato la porta si era trovato dinanzi alla squadra di operai che, tutti seduti in circolo, erano intenti a bere birre: «Ma come, bevete alcol che è haram per i maomettani; non siete voi dei pii musulmani?», esclamò il missionario. Gli rispose il capo cantiere: «Abuna (padre, ndr) – disse l'uomo con uno sguardo contrito –, qui nella tua casa santa, dentro le mura del tuo Dio, lo sguardo di Allah non ci può scoprire».
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