mercoledì 8 giugno 2011
Le vin de solitude è il primo romanzo che Irène Némirovsky pubblicò da Albin Michel, nel 1935. A soli trentadue anni è una scrittrice di grande successo, soprattutto per quel David Golder (1929) da cui era stato tratto anche un applaudito film di Julien Duvivier, il regista che l'anno dopo firmerà un altro film tratto da un romanzo di Némirovsky, Le Bal, con l'attrice esordiente Danielle Darrieux. Il passaggio dall'editore Grasset ad Albin Michel è dettato da ragioni economiche: il nuovo editore offre un contratto in esclusiva per vent'anni, per uno o due romanzi all'anno, con un mensile di 4.000 franchi per la durata di tre anni (rinnovabili), per un totale garantito di 144.000 franchi. Grasset non può concedere altrettanto. Il vino della solitudine, che Adelphi pubblica ora nella traduzione di Laura Frausin Guarino (pp. 248, euro 18), vendette diecimila copie, cifra ragguardevole ma lontana dalle sessantamila di David Golder. Il vino della solitudine è un romanzo crudele, tanto più impressionante perché autobiografico. Racconta, come afferma l'autrice stessa, «la vendetta di una figlia contro la madre». Siamo nell'impero russo, ai primi del Novecento. La bambina Hélène è un impiccio per la madre, Bella, che tradisce il marito Boris Karol con il giovane nipote Max, oltre che con amanti occasionali. Boris, ricchissimo per spericolate speculazioni borsistiche, è divorato dal demone del gioco e, nonostante tutto, ama la moglie. Allo scoppio della rivoluzione, la famiglia, Max incluso, si trasferisce dapprima in Finlandia poi a Parigi, dove Bella finalmente può fare la vita brillante e dissoluta che ha sempre sognato. Hélène aveva già perso il sostegno dell'istitutrice francese, Mademoiselle Rose, colei che le ha fatto da madre, brutalmente licenziata per ingiuste accuse. L'odio tra madre e figlia non fa che mettere nuovi rami e nuove foglie. Passano gli anni ed Hélène attua la sua vendetta: farà innamorare di sé Max per sottrarlo alla madre, affranta dalla gelosia e ormai soccombente nella lotta con la vecchiaia incipiente. Hélène rifiuta il matrimonio che Max le offre: non lo ama, l'ha solo usato contro la madre. Il giovane parte per l'Inghilterra, dove in seguito si sposerà. Boris è malato, il suo patrimonio si sgretola per i fallimenti delle imprese di cui è azionista e per il gioco. Muore nell'indifferenza egoista della moglie, che ha un nuovo amante. Hélène lascia quella casa fastosamente kitsch e, con la piccola somma che il padre le ha lasciato, tenterà di costruirsi un'esistenza da sola. Raccontato così sembra un romanzo d'appendice e, in effetti, un po' feuilletonistico lo è. Ma la magia della scrittura di Irène rende credibile il tutto, che ha una sua moralità, nel senso che il male è sentito come male, anche quando a commetterlo è Hélène nei confronti dell'indegna madre. Il personaggio di Bella riapparirà come Gladys nel romanzo Jezabel del 1936 (Adelphi 2007). L'accademico Chaumeix elogerà Il vino della solitudine paragonando Némirovsky «ai filosofi più stimati, ai pessimisti più seri, ai teologi che ci illustrano il significato e gli effetti del peccato originale, e ai poeti che meglio hanno raccontato la dolorosa avventura della vita terrena». Adelphi ha pubblicato nel 2009 anche la vasta biografia scritta da Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt, con il semplice titolo La vita di Irène Némirovsky. Una biografia che illumina le opere di una scrittrice che ha confezionato questo aforisma: «Le infanzie felici creano una vita armoniosa. Le infanzie infelici, una vita feconda».
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