giovedì 7 novembre 2019
Lo hanno accolto allo stadio facendolo accomodare su un trono. Perché i miti, quando si siedono, lo devono fare in modo regale. La settimana scorsa i tifosi del Newell's Old Boys, in Argentina, hanno celebrato così il ritorno a casa di Diego Armando Maradona: nella loro squadra in realtà aveva giocato appena 5 partite in passato, senza mai segnare, cosa che non gli è mai successa altrove. Ma la gratitudine, si dice, è la memoria del cuore. E celebrare chi comunque ha lasciato un segno, fa bene. Se non altro perché aiuta a ricordare.
Ma non è tanto una panchina a forma di trono a stupire, quanto la consapevolezza di come questo straordinario campione e pessimo uomo riesca ancora ad ammaliare le folle. Esiste ancora Diego, anzi resiste. A 59 anni suonati, ora che ha smesso da tempo di giocare, si arrampica sfatto e pesante sugli specchi della propria carriera per raccattare ancora qualche dollaro facendo l'allenatore, 35 anni dopo il suo primo gol con la maglia del Napoli, 33 anni dopo aver vinto il titolo mondiale con la sua nazionale, 28 anni dopo la prima squalifica per doping e 25 anni dopo l'ultima, 23 anni dopo l'ultima rete su azione, 22 stagioni dopo l'ultima partita ufficiale di una carriera chiusa con 353 gol, solo 6 con il destro, uno con la mano.
In Argentina, a Napoli, ovunque: per chi lo ha visto zampettare sull'erba come nessun altro, Diego Maradona resta un simbolo, l'icona del genio maledetto, baciato dal talento ma non abbastanza per evitare di accartocciarsi la vita e buttarla nel cestino. Diego si è fatto amare perché non ha solo giocato a calcio, ma perché per anni è stato il calcio. Ha attraversato fango, splendori, scudetti e manette. Ma alla gente è sempre stato simpatico perché era il più grande, perché è caduto e si è rialzato. O forse solo perché si è rotolato nel vizio senza mai dare la colpa ad altri.
Oggi, come sempre, ammiriamo i buoni e invidiamo i belli. Ma sono i cattivi che ci mancano. Sono quelli che non stanno alle regole del gioco che ci affascinano, perché ci fanno sentire migliori di loro, perché hanno bisogno del nostro perdono, perché sono per sempre nelle nostre mani: abbiamo il potere di assolverli o condannarli senza che nessuno possa dire che ci sbagliamo. È il potere di decidere il di qua o il di là di un personaggio famoso ciò che ci fa sentire forti, specie di fronte a un divo che non è un eroe da portare ad esempio ma un uomo con le nostre piccolezze, anzi molte di più.
Ecco perché, vedendolo seduto su quel trono pacchiano a bordo campo, abbiamo pensato a quanto sia stato squallido e bugiardo Maradona, ma anche meraviglioso perché accarezzava i compagni e si faceva carico delle loro debolezze. Perché era ricco pur vivendo di eccessi da straccione, gioioso come nessun altro quando palleggiava con un'arancia davanti alla folla in delirio, lui che diceva di aver letto tutte le poesie di Borges ma purtroppo così su due piedi di non ricordarsene nemmeno una.
Abbiamo amato intensamente Diego Maradona perché segnava, cantava e ballava, perché non diceva mai di no attratto com'era da ogni attimo di vita, balordo e ingordo al punto da voler annusare tutto e tutti. Piaceva perché era un uomo sbagliato, inadeguato negli affetti, osannato nei vicoli. Quelli dove vivevano coloro che lo avevano adottato, e quelli dove era nato lui e che non ha mai dimenticato.
Ora è rimasto un signore a cui non basta più pensare con i piedi, che si trascina nei bassifondi dei campionati sudamericani impartendo ordini tattici dopo aver attraversato una vita senza tattica e senza ordini ai quali poteva e sapeva obbedire: appesantito, schiacciato, gonfio di ricordi ma ancora carico in faccia di ingenuità, spavalderia, dolore, confusione.
Davanti a questo monumento allo spreco, chi ha ancora negli occhi le sue magie col pallone al piede non può provare riconoscenza: quella richiede analisi e giudizio, ha sfumature inevitabili sul piano della dignità. Ma gratitudine, quella sì, gliela deve. E molta. Perché è un sentimento che può essere cieco e scervellato, pura passione. Come lui.
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