mercoledì 27 aprile 2011
Se la prima regola dell'amicizia è quella di coltivarla, la seconda è quella di essere indulgenti quando la prima è stata infranta.

Quanto è stato scritto sull'amicizia, oscillando spesso tra i due estremi dell'enfasi e del sarcasmo: penso, da un lato, alla lapidaria e commossa definizione delle Odi di Orazio, animae dimidium meae, l'amico è metà dell'anima mia; e d'altro lato mi ricordo dell'altrettanto lapidario e ironico amicus ollaris, l'amico della pentola a cui attingere, del Satyricon di Petronio. Ritorno anch'io oggi su questa realtà che, proprio perché profondamente umana, può essere bifronte. E lo faccio con la considerazione pacata di un autore di solito mordace come Voltaire. Certo, fondamentale è «coltivare» l'amicizia con tutte quelle premure che riserviamo a una pianta, se non vogliamo che inaridisca e muoia. Il modo autentico per avere un amico è essere amico dell'altro.
Detto questo, però, rimane altrettanto decisiva la seconda regola che Voltaire enuncia, quella dell'indulgenza e del perdono in caso di debolezza e persino di tradimento. Non per ingenuità o per dabbenaggine, ma per consapevolezza della comune fragilità bisogna saper passare sopra ai limiti e ai difetti dell'amico. Il vero compagno, infatti, è colui che sa tutto di te, eppure gli piaci lo stesso. E qui vorrei fare un'osservazione un po' scontata che va oltre il tema della frase citata. Di solito si dice che l'amico genuino lo scopri nel giorno della prova (amicum aperit calamitas, dicevano ancora i latini). In verità, l'autentica amicizia brilla quando l'altro ha successo: è facile asciugare le lacrime di un amico, è più difficile stare in platea e applaudirlo senza gelosia nel momento del trionfo. L'amico perfetto è colui che non ha il tarlo dell'invidia a rodergli il cuore.
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