martedì 6 novembre 2007
Come il ferro è consumato dalla ruggine, così gli invidiosi sono consumati dalla loro stessa passione.
È, questa, una legge morale: l'invidia " come accade per altri vizi " ha in sé stessa la sua punizione (è la cosiddetta «nemesi immanente» che Dante spesso illustra nella sua Divina Commedia ma che anche la Bibbia afferma). Oggi noi l'abbiamo riproposta attraverso un motto dell'antichità, attribuito al filosofo greco del V-IV sec. Antistene, fondatore della scuola cinica. Sulla sua scia s'è mossa una immensa schiera di autori che hanno ribadito la stessa considerazione. Già la Bibbia definiva l'invidia «una carie per le ossa» (Proverbi 14,30), «un verme roditore», dirà Cervantes, «il veleno del cuore» per Voltaire. Essa, infatti, consuma e avvelena chi la secerne, lo tormenta nel livore, lo abbatte nell'infelicità per il successo dell'altro.
Ecco, vorrei proprio sottolineare questo aspetto perché ne siamo un po' tutti infetti. Aveva ragione lo scrittore inglese Oscar Wilde quando affermava: «Tutti sono capaci di condividere le sofferenze di un amico. Ci vuole, invece, un'anima veramente bella per godere del successo di un amico». È questa la vera cartina di tornasole dell'autentica amicizia: essere in platea ad applaudire l'altro in modo convinto e festoso, quando egli è alla ribalta del trionfo. E, invece, dobbiamo confessare che spesso il nostro applauso è freddo, il sorriso ha l'aspetto di una smorfia, il tarlo dell'invidia sta facendosi strada nel nostro cuore. Finisco con la nota amara di uno scrittore svedese, Bo Carpelan: «L'invidia e la gelosia sono una malattia. L'unica medicina è una dose sostanziosa di umorismo e autocritica. Ma dov'è la farmacia che la vende?».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: