venerdì 15 novembre 2013
Come ha detto Montolivo «questa Nazionale è una grande famiglia». Il problema è un altro: è anche una grande squadra? Da antico suiveur sento che manca qualcosa, rispetto alle Grandi Spedizioni del passato, quelle che si conclusero - come in Argentina '78 - con una sconfitta a dir poco “costruttiva”, o come nell'82 e nel 2006 con insperati trionfi partoriti dopo una faticosa e snervante gestazione, fra scandali e polemiche che celavano ai più le qualità dei singoli e del gruppo ma rivelavano agli avversari la tradizionale forza di un calcio insuperabile nel Continente, all'altezza di quello brasiliano. È lì, nella patria del futbol bailado, che dobbiamo andare, non nei Paesi dove tradizionalmente ci temono; è lì che dobbiamo presentarci per l'esame di laurea che ci passerebbe alla storia promuovendoci comprimari planetari. Dunque, che cosa manca? Parlo per me, naturalmente, pronto a partecipare all'undicesimo Campionato del Mondo più con la fede di marca italica che con la fiducia suggerita dalla squadra. Il clima - dice Montolivo - è sereno. Forse anche troppo. Gradirei inquietudine. Non come ai tempi di Fabbri e Meroni (rivisitati sere fa in tivù fra Baci&Abbracci) quando le polemiche ci trascinarono direttamente fra le braccia dei coreani, e neppure come nell'Ottantadue, quando si giocava a palla avvelenata, ma almeno a livello del 2006, con gli azzurri un po' meschini perché figli (o nipotini) di Calciopoli e certi moralisti che invocavano uno stop per Buffon e Lippi. Insomma, se ad ogni conferenza stampa s'ha da parlare di Balotelli come oggetto d'inquietudine e soggetto di predicozzi del ct è come se ci si armasse non per andare ad affrontare la Battaglia del Secolo ma per partecipare alla Fiera dei Sogni o a uno di quei contest che vanno tanto in tivù e che spediranno candidati a San Remo. Il Festival di Rio pretende altro, da noi: innanzitutto il riscatto di quel '50 scellerato in cui fummo aride se non ridicole comparse, ma soprattutto l'esibizione della nostra Religione Tattica, Catenaccio&Contropiede, l'unica degna di opporsi all'ispirazione brasiliana fin dal 1934, quando ancora non era stata neppur battezzata (ma Pozzo già dava l'input alla Grande Rivoluzione rivelando il Frossi-style nei Giochi del '36) perché si doveva ancora trovare un Viani capace di tradurre in italiano il verroux di Monsieur Rappan. Ho l'impressione che nel Club Italia si parli di tanto, di tutto, di bontà e di virtù, di etica e spiccioli, ma non di calcio, come pretenderebbe la misteriosa vicenda di El Shaarawy, qualche mese fa annunciato come l'Angelo della Vittoria ora vittima di un povero Diavolo. Temo, soprattutto, che per suggerimento di Vico - corsi e ricorsi e discorsi - ci si aspetti il miracolo da Pepito Rossi, novello deus ex machina (direbbe Lotito) come il Pablito dell'Ottantadue. Troppo poco. Prandelli, andiamo al sodo.
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