domenica 27 novembre 2022
Quando siamo giovani, pensiamo alla morte delle persone care come a un momento al quale cercare di sottrarci: “non voglio esserci quando succederà”, ci auguriamo. Ma quando il tempo è passato, i più fortunati tra noi sanno quale dono è stato
poter stare vicino a una mamma o a un papà che se ne vanno: stare vicino quando non c’è più niente “da fare”, quando l’unica cosa possibile è stare seduti accanto a un letto e accarezzare una mano, o tenerla tra le proprie in silenzio. Se smettiamo di dibatterci, quando il contatto con la persona sospesa tra vita e morte può essere fatto solo di gesti e di pensieri possiamo sperimentare che in quella terra di mezzo gesti e pensieri non cadono nel vuoto, ma possono venire misteriosamente accolti. Chi accetta di vivere questo tempo speciale, può
darsi lo spazio per ripercorrere la storia del suo rapporto con la persona che lascia: può permettersi di perdonare e di chiedere silenziosamente perdono. È questo un passaggio cruciale nell’elaborazione di ogni lutto, perché tutte le relazioni umane, anche le più ricche, sono ferite dal limite; è dunque necessario nominare, accogliere e perdonare il limite proprio e dell’altro perché la separazione della morte non lasci in noi rabbia o disperazione, ma possa aprire la strada a una memoria radicata in ciò che ci ha legato piuttosto che in ciò che ci ha diviso. Questo non significa in alcun modo alterare la verità di ciò che è stato: quel padre, quella madre, quel fratello, marito o figlio hanno avuto con noi un rapporto di cui solo noi conosciamo davvero la storia; possono averci fatto torti difficili da dimenticare, possono essere stati poco capaci di comprenderci e di amarci, possono averci offeso o ferito. Eppure, là dove esiste un vero legame le persone sono sempre l’una per l’altra una
ricchezza grande, seppure contraddittoria: una ricchezza che non è destinata a svanire ineluttabilmente, ma può trasformarsi
in eredità e inaugurare un tempo di gratitudine nel ricordo. Perché questo sia possibile, non dobbiamo però avere troppa fretta di liquidare la morte. Isolare il morente, augurare e augurarci una
morte improvvisa e inconsapevole, evitare il contatto con la realtà del corpo morto, farne sparire le tracce nel modo più completo e rapido possibile: tutto questo non migliora affatto il nostro rapporto con la morte, né ci toglie la paura e l’inquietudine che ci trasmette. Il paradosso è che la morte inizia a farci meno paura proprio quando accettiamo di non sfuggirle, e facciamo la concreta esperienza di una vicinanza buona con il morente. Impariamo così che quando “non c’è più niente da fare” è necessaria una resa: non una resa passiva, ma una resa vigile, in cui all’inutilità dell’affannarsi si sostituisce il tempo prezioso di una presenza consapevole e affettiva, in grado di raggiungere chi non può più intenderci nei modi consueti.
Quando smettiamo di affannarci, accettiamo ciò che accade e rimaniamo vicini all’altro che se ne va, possiamo a volte fare l’esperienza imprevista e misteriosa di una grande pace: percepiamo allora di trovarci nello spazio del sacro, con tutta la sua paradossale bellezza.
È uno spazio che esige silenzio, penombra, lentezza di movimento; non ci sono parole giuste da dire, gesti giusti da fare: bisogna solo esserci e “stare”. Poter stare accanto a chi muore è un privilegio che abbiamo dimenticato e che dobbiamo ritrovare, se vogliamo avvicinarci con meno paura alla nostra stessa morte. © riproduzione riservata
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