giovedì 21 novembre 2019
Un amico mi ha chiesto come mai non pubblico “storie” (fotografiche) su Instagram. Purtroppo, nella mia qualità di ex giovane tecnologicamente inadeguato e digitalmente sprovveduto, con i social ho frequentazioni difficili, e le foto mi riescono male. Anzi ignoravo persino che le storie potessero essere fotografiche. In realtà fatico a comprendere perché un'immagine mia o di qualcosa che piace a me possa interessare ad altri, e soprattutto non so nemmeno bene cosa sia Instagram. L'argomento però merita attenzione. Perché per molti di noi romantici attempati, talpe da tastiera e diffidenti cronici, le storie sono una cosa seria. Troppo per essere condivise con chiunque senza un'adeguata indagine preventiva.
Ogni storia infatti è una favola: ridurla a una semplice immagine è un po' come annacquare il vino. Può piacere lo stesso, ma si perde un'occasione. E di occasioni ne stiamo perdendo tante in quest'epoca in cui le favole che ci raccontano sono sempre false, e quelle vere sono in via d'estinzione. Una recente ricerca inglese ha spiegato che ormai solo il 16% dei bambini tra i due e gli otto anni si addormenta al suono di una storia raccontata dai genitori. Dieci anni fa erano ancora il 30 per cento, trent'anni fa il 75 per cento. Conseguenza inesorabile è che la prossima generazione avrà un'infanzia senza favole. E la cosa peggiore è che non sapranno mai cosa si sono persi.
Lo dicono gli psicologi, ma lo certifica anche il buon senso: quei pochi minuti in cui un genitore o un nonno si sedevano accanto al nostro letto per raccontarci di Cappuccetto Rosso, o di un altro personaggio inventato al momento costruendo intrecci insostenibili e quasi sempre senza sapere assolutamente dove andare a finire, non erano solo il più straordinario sonnifero mai creato dall'uomo, ma la prima e più grande lezione morale e di vita. Perché da sempre, le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Quello i bambini lo sanno già. Le favole invece dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. Lo sosteneva G.K. Chesterton, uno che faceva lo scrittore e che con le storie ci mangiava, ma è profondamente vero. La differenza tra il bene e il male si insegna meglio raccontando di fate e mostri. E se è fatta prima di chiudere gli occhi, l'operazione rende anche di più: perché induce a sognare solo di quello.
Il problema semmai è che diventati grandi, molti di noi non riescono più a fare sogni. Ciò che manca è l'ossigeno per raccontarli, persino a se stessi. Cioè per desiderare qualcosa di definito, che poi è l'essenza del sogno. Quando il futuro non è un'opportunità, ma sembra soprattutto una minaccia, sognare diventa più difficile. Anzi, per dormire meglio magari ci si augura di non sognare affatto. I nonni che ci raccontavano le favole invece avevano vissuto epoche più difficili: le loro storie declinate al futuro erano per forza cariche di ottimismo e di fiducia. Il nostro presente, al contrario, è paralizzato da un eccesso di apparente libertà, fatta di opportunità incerte e desideri vaghi, dove riuscire a raccontare una storia a un bambino significa avere davvero un conato di ottimismo. Con il rischio tra l'altro che sia lui a spiegarti come va a finire.
Più belle storie da sentire uguale meno delinquenza mentale, resta però un teorema facile da dimostrare. Per questo sarebbe ora di smetterla di incolpare la scuola, la società o la tv se i nostri figli crescono nutrendosi di racconti sbagliati. Occorre riprendere in mano il libro: basta vincere la pigrizia e il timore di essere presi per illusi, aggiungerci un po' di attenzione per quel tanto di buono estrapolabile dal resto che ancora ci circonda, condirlo con un pizzico di fantasia, e il gioco è fatto. Sembra la pozione magica della fata turchina. E in fondo lo è. Ma non la troveremo mai su Instagram, qualunque cosa sia.
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