mercoledì 21 giugno 2017
Giovanni Palladino (1941) ha respirato in famiglia il popolarismo sturziano perché suo padre, Giuseppe Palladino (1908-1994), al rientro dall'esilio di Luigi Sturzo (1871-1959) ne è stato il principale collaboratore e suo esecutore testamentario.
In un piccolo libro vincitore in una sezione del Premio Capri dello scorso autunno, Giovanni Palladino, sotto il titolo Governare bene sarà possibile, ragiona su «come passare dal populismo al popolarismo» (Rubbettino, pagine 112, euro 10,00). Esempi di populismo, addotti da Palladino, sono l'effimero "Uomo qualunque" di Guglielmo Giannini nel secondo dopoguerra, il giudice Antonio Di Pietro «che da eroe di Tangentopoli fu poi colpito dalla legge di Peter secondo la quale "con il tempo ogni posizione tende a essere occupata da una persona che è incapace di svolgere quel lavoro") per giungere, infine a fare l'agricoltore e l'avvocato, forse tornando al suo livello di effettiva competenza»; anche Matteo Salvini e Beppe Grillo sono arruolati tra i populisti, con l'auspicio che entrambi «possano passare alla storia come gli ultimi populisti italiani».
I capisaldi del popolarismo sono fissati nel famoso appello di Sturzo "A tutti gli uomini liberi e forti", del 18 gennaio 1919: in primis, realizzare gli ideali di giustizia voluti dal socialismo ma senza il rispetto della libertà, e gli ideali di libertà voluti dal liberalismo ma senza giustizia; interclassismo; forte decentramento provinciale e regionale contro l'invadenza dello statalismo (termine sturziano). Purtroppo, dopo l'epoca degasperiana, la Democrazia cristiana, secondo Palladino, si lasciò attrarre dallo statalismo socialista, tanto che nel 1989 Ciriaco De Mita fece questo mea culpa: «La Dc ha un grande peccato. Il suo retroterra culturale è il popolarismo sturziano, ma la nostra gestione del potere è in contraddizione con questo insegnamento».
Palladino insiste sul "retroterra culturale", e osserva che «l'utopistico tentativo di creare nel Paese una società cristiana e allo stesso tempo socialista è fallito in presenza di due culture diverse e antagoniste, due culture che non potevano unirsi e funzionare, non avendo valori comuni». Se lo Stato diventa imprenditore, e se i partiti usano gli enti pubblici per finanziarsi, sono inevitabili fenomeni di corruzione, e si può affermare che «quanto minore è il debito pubblico, quanta minore è la corruzione e quanto maggiore la giustizia sociale».
La lungimiranza di Sturzo è davvero impressionante: aveva previsto che gli accordi di Bretton Wood, privilegiando il dollaro come moneta di riferimento, avrebbero avvantaggiato soltanto gli Stati Uniti, aprendo il conflitto tra economia finanziaria ed economia sociale di mercato, che avrebbe prodotto crisi fino a quella del 2008, non ancora assorbita; peraltro, aveva colto i vantaggi di una sana internazionalizzazione dell'economia (oggi diremmo della "globalizzazione"), che ha migliorato le condizioni di vita di tante zone del pianeta intrappolate dal sottosviluppo per mancanza di libertà politica ed economica. Nel 1928 Sturzo non condivideva i timori verso la crescente potenza del capitalismo internazionale e auspicava: «L'estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò è fuori della realtà».
La frase di Sturzo ricordata dal cardinale Oscar Andrés Bordíguez Maradiaga nella prefazione conserva la sua bruciante attualità: «La politica senza etica non è politica, ma sopraffazione, mentre l'economia senza etica è diseconomia e prima o poi è destinata a fallire».
Davvero un ripasso e un approfondimento del popolarismo sturziano è di grande utilità, ma pesa l'assenza di un nuovo Luigi Sturzo. Lo ammette anche Palladino: «Il passaggio al popolarismo non è ancora avvenuto per lo stesso motivo di ieri: la mancanza di una classe dirigente adeguata al compito».
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