giovedì 13 aprile 2006
Come tutti gli altri, chinai il capo/ durante la consacrazione del pane e del vino,/ alzai gli occhi verso l'ostia e il calice levati in alto,/ credetti a una mutazione./ Andai alla balaustra dell'altare e ricevetti il mistero/ sulla lingua, tornai al mio posto, chiusi bene gli occhi,/ feci l'atto di ringraziamento, apersi gli occhi e sentii/ che il tempo s'era rimesso in moto. Oggi, Giovedì Santo, tanti ripeteranno i gesti e vivranno le emozioni della fede che il poeta irlandese, Nobel 1995, Seamus Heaney descrive in questi versi appartenenti alla raccolta Attraversamenti (Scheiwiller). Consacrazione e comunione sono immerse in un orizzonte trascendente: è l'eternità che penetra nel tempo fissandoli in un istante perfetto, è la mutazione invisibile che rende il pane carne e il vino sangue, è il mistero che si deposita su una lingua. Sono parole semplici che sbocciano però " come dice più avanti il poeta " da «un imperituro tremore e un richiamo, come l'acqua laggiù in fondo al pozzo». Vorrei aggiungere a questa celebrazione dell'eucaristia, fatta da un poeta che non la descrive dall'esterno ma la vive nella stessa liturgia, una nota proprio sul verso finale: «Il tempo s'era rimesso in moto», appena vengono aperti gli occhi dopo il ringraziamento. È famosa l'immagine che un ebreo, J.A. Heschel, aveva applicato al sabato, il tempo sacro ebraico, quella dell'isola, ma subito per negarla. Il tempo del culto, come il tempio che lo ospita, certamente sono separati dalla quotidianità, ma non devono essere isolati. Anzi, dopo l'incontro col mistero e l'eterno, i tuoi occhi devono aprirsi, i tuoi passi devono riprendere le strade della città, l'orologio deve scandire impegni ed eventi. Quell'incontro, infatti, deve santificare, trasfigurare, vivificare la tua esistenza quotidiana irradiandola di luce.
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