sabato 1 aprile 2017
Forse mai in passato come negli anni Duemila abbiamo riscoperto in Italia la centralità assoluta del lavoro non solo nell'arena politica, ma soprattutto nella testa degli italiani. Perché se negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ci eravamo illusi che le «magnifiche sorti e progressive» della crescita occidentale potessero garantire occupazione e benessere senza soluzione di continuità di generazione in generazione, negli ultimi 15 anni siamo stati costretti a svegliarci bruscamente da questo "sogno sviluppista". E così il lavoro si è trasformato da presunto diritto in conquista complessa e sempre più rara, non essendo più la conseguenza automatica di una determinata scelta di studio o di formazione sul campo, ma l'effetto di una combinazione di fattori che non è più possibile predeterminare in partenza. Questo cambio di scenario ha rotto "l'incantesimo" del passaggio di testimone dai padri ai figli: oggi è, in Italia ancor più che nel resto del mondo avanzato, soltanto un gioco al ribasso di opportunità e di speranze.
Eppure negli ultimi due anni qualcosa è cambiato. Grazie alle due misure principali del Governo Renzi – il Jobs Act e soprattutto la decontribuzione a favore dei nuovi assunti – i trend dell'occupazione in Italia hanno compiuto passi in avanti molto importanti. Su questo è bene superare qualsiasi polemica politica, per dare la parola ai numeri: nonostante il ridimensionamento nel 2016 delle agevolazioni a favore delle assunzioni a tempo indeterminato, nel settore privato si è avuto nel biennio 2015-16 (secondo i dati più aggiornati dell'Inps) un saldo positivo di 968mila rapporti di lavoro. Trend che continua anche nel 2017: a gennaio, nel settore privato, si è registrato un saldo pari a +142mila, superiore a quello del corrispondente mese del 2016 (+117mila).
Sono posti di lavoro in più pagati a caro prezzo, dal punto di vista delle risorse pubbliche impiegate. Ma un milione di italiani in più che vive nel "paradiso" dell'occupazione rappresenta comunque un'inversione di ciclo di grande impatto, che consente di offrire più chance ad almeno due generazioni: quella dei nostri ragazzi che si accingono a entrare nel mondo del lavoro dopo il percorso universitario, e quella dei cinquantenni che perdono il loro posto fisso a causa di una ristrutturazione aziendale, ma sono troppo giovani per godersi la pensione. Entrambe le generazioni oggi sanno che c'è qualcosa per cui lottare e che val la pena sempre provarci, come dimostra il forte calo degli scoraggiati (che decidono di non iscriversi neanche nelle liste di collocamento).
La ripartenza dell'occupazione in Italia, tuttavia, ha avuto finora un limite rilevante: non ha cambiato il sentimento prevalente degli italiani, che rimane ancorato a una sfiducia di fondo che sarebbe tipica di momenti di crisi caratterizzati dal Pil con segno negativo. Finché non riusciremo a vincere questa sfiducia, ogni ripartenza sembrerà effimera: come se riguardasse sempre e solo gli altri, come se fosse frutto di una narrazione di cui diffidare. Ma la realtà, in questo caso, è ben più interessante di un racconto per slogan da intervista al tg di turno.
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