mercoledì 20 novembre 2019
«È forte chi sa vivere anche senza tecnologia, con la natura con cui non si può barare». È l'incipit di un bel libro scritto da Motoko Iwasaki, giapponese adottata in Italia, esattamente a Sordevolo, poco prima del santuario di Oropa in Piemonte, dove ha scoperto tante similitudini con la sua terra, che qui racconta con piacevole disinvoltura. Compresa la conversione al cristianesimo che è stato nutrimento al suo cuore, giacché il titolo del libro è proprio "Un cuore da nutrire" (AliRibelli edizioni).
A Motoko mi lega un affetto particolare, essendomi stata guida nei viaggi in Giappone, a scoprire la cultura di quella terra attraverso i dettagli del cibo e delle coltivazioni agricole. Una terra dove gli abitanti molto spesso hanno dovuto fare i conti col limite della natura, come sta accadendo a noi in questi giorni, ma che hanno sempre mantenuto un atteggiamento composto.
Una faccenda come il Mose, tanto per capirci, in Giappone (anche senza usare la parola "probabilmente") non sarebbe mai accaduta. Perché è improbabile che qualcosa che viene creato a difesa di un bene collettivo in Giappone subisca ritardi. Del resto non accade neanche con la metropolitana dove, quando viene maturato un minuto di ritardo, ti chiedono scusa dall'altoparlante.
Qui invece chi chiede scusa? Mai sentita questa parola, di fronte al rimpallo di responsabilità dei giorni passati. Prima di mettermi a scrivere ho chiamato Viviana, l'amica che quest'estate m'ha servito le seppie appena pescate nella sua casa di Pellestrina. E subito m'ha detto: «Non posso lamentarmi», anche se l'acqua è arrivata a devastare la parte sotto della sua casa, con la salsedine che distrugge le porte e squarcia i mobili. Lei nel '66, quando ci fu la prima alluvione, era bambina, e ricorda l'arrivo dell'acqua come un crescendo; questa volta, invece, è stato tutto all'improvviso.
«A parole è difficile spiegare cosa è successo – mi dice –, in pochi secondi ti vedi passare davanti la vita. Però subito dopo pensi ai figli, agli amici, a quello che hai e ricomincia la vita». La barca del figlio Lorenzo che alleva le cozze di Pellestrina s'è salvata, e anche il ristorante Celeste che le cucina aveva messo alcune barriere limitando i danni.
Siamo condannati alla fragilità per sempre? Se facessi questa domanda a Motoko lei mi direbbe che al contrario siamo destinati a conoscere di più. Quindi a prevenire, a prendere iniziative, a prepararsi alle eventualità. Questo toccherà alla gente di Venezia, di Pellestrina, ma anche di Matera, di Firenze, di Pisa, di Alessandria, insomma di quel 90% di territorio che è considerato fragile. Ma mentre dovremo metterci in linea con questo modo di pensare, lo Stato cosa farà? Sarà sempre lì ad attendere le emergenze? Oppure scoprirà che occorre pianificare un modo nuovo di abitare il nostro Paese?
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