giovedì 14 aprile 2011
La sofferenza deve evidentemente avere un senso, altrimenti la vita sarebbe insopportabile, ed esige quindi necessariamente l'esistenza di un Donatore di Senso.

È una vetta sempre innevata di oltre cinquemila metri, posta al confine tra Turchia e Armenia. È l'Ararat ove, secondo la tradizione popolare, si sarebbe arenata l'arca di Noè (in realtà la Genesi parla dei «monti dell'Ararat», l'antica regione di Urartu). Ebbene, un noto scrittore olandese, Frank Westerman, intitola a questo monte un romanzo-reportage e lo fa diventare l'emblema del rapporto tra scienza e fede (ed. Iperborea 2009). In questo crocevia incandescente si presenta anche lo spettro del dolore che spesso fa saltare le categorie filosofiche, i teoremi scientifici e le tesi teologiche (Giobbe insegna"). La frase che ho proposto è significativa, soprattutto con quelle maiuscole: è necessario un «Donatore di Senso».
Sì, come accade a Giobbe, non bastano le compassate argomentazioni degli amici teologi. È Lui, il Creatore, che deve rispondere. Per questo la domanda, di fronte a sofferenze atroci, anche nella Bibbia è lanciata verso il cielo. Quando un genitore tiene tra le braccia il figlio morto o, anche più semplicemente, un figlio gravemente disabile, l'urlo che gli sale dalla gola non riguarda più né il medico né l'amico, ma solo Lui. E ora, tra le tante cose che si dovrebbero dire " ma con scarso esito " su questo tema, vorrei solo evocare le parole di un altro scrittore che fu un mio caro amico, Giuseppe Pontiggia (1934-2003), nell'autobiografico Nati due volte (2000). Egli coglie così il significato della preghiera nel tempo della prova: nella disperazione «mi metto in contatto con una Voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l'ho negata anch'io per riscoprirla nei momenti difficili. E non era un'eco».
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