giovedì 25 marzo 2021
Ogni giorno mi cresce il dubbio che, per la maggior parte dei detenuti, il carcere non sia il luogo più idoneo per aiutarli a riprendere in mano la loro vita. Di certo non vedo quel aspetto rieducativo che la detenzione dovrebbe avere. E l'ho visto ancora meno in questi 12 mesi segnati dalla pandemia e dalle conseguenti limitazioni. La mia percezione, da dentro, è che le persone che affollano il carcere, pagando spesso con una reclusione più pesante e lunga rispetto al reato commesso o per il quale sono state condannate, siano per lo più le meno abbienti, che per ragioni economiche devono affidarsi ad avvocati d'ufficio i quali (anche per la grande mole di lavoro che devono svolgere) non riescono a seguirle in maniera ottimale. Solo un 10 per cento di chi si trova in carcere può permettersi un avvocato "di nome", che lo segua quasi quotidianamente favorendo una rapida risoluzione delle pratiche giuridiche.
Per altro, gran parte di questa gente non è costituita da rapinatori sanguinari o pericolosi assassini, ma di poveri disgraziati. Molti soffrono di disagio psichico e dipendenze, sono colpevoli di piccoli furti o di spaccio di stupefacenti "al dettaglio", tutti reati legati alla loro condizione di tossicodipendenti o di alcolisti. Queste persone dovrebbero scontare una pena adeguata, essere seguite e rieducate, non rinchiuse in cella e abbandonate a loro stesse, malgrado in proclami di una classe politica non sempre all'altezza. Ricordate i braccialetti elettronici? Sembravano la panacea di tutti i problemi di sovraffollamento delle carceri e di umanizzazione delle pene. Il progetto risale addirittura al 2001. È stato riproposto a marzo dello scorso anno per diminuire le presenze nelle carceri col crescere della pandemia. Ma, da quello che so, sono ben pochi i detenuti che ne hanno usufruito e, per di più, con costi economici elevati per lo Stato.
Nel frattempo sono tenuti inspiegabilmente in carcere anche molti "senza dimora", che la povertà materiale o mentale porta a vivere di espedienti, talvolta chiedendo soltanto l'elemosina, in altri casi rubando e, quasi sempre sotto l'effetto dell'alcol, diventando violenti. Poi ci sono gli stranieri, lontani da casa e senza nessuno, aiutati soltanto dai volontari e dai cappellani: arrivati in Italia seguendo l'illusione di una vita migliore e finiti a delinquere, spesso costretti da persone senza scrupoli sotto la minaccia di violenze su loro stessi o sui familiari rimasti nei Paesi d'origine. Per costoro è difficile perfino spiegarsi, farsi capire, per ragioni di lingua e di cultura, perciò molti sono discriminati anche in carcere.
Poveri, senza tetto, malati psichici, tossicodipendenti, stranieri: quando usciranno dove andranno? Ritorneranno "invisibili" nelle nostre strade fino al prossimo atto violento, magari un modo per gridare «Esistiamo, siamo persone anche noi»? La sensazione, infatti, è che la detenzione come è ora serva soprattutto a costruire nuovi "ultimi", in carcere e nella società.

Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile "Nuovo Complesso" di Rebibbia
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