venerdì 1 novembre 2013
Il gol ha una qualità straordinaria: fa ridere e fa piangere. Quelli che lo apprezzano non per il risultato che provoca ma per la sua costruzione ed esecuzione sono sempre stati in minoranza e - seppur autorevoli - poco ascoltati. Un mio amico ha scritto un libro facendosi ispirare da un gol di Pelè all'Italia (finale Mondiali del '70) magicamente raccontato da Brera; altri e più importanti scrittori e intellettuali appassionati del gol si sono sbizzarriti nella ricerca di contenuti filosofici del gioco più bello del mondo, spesso stupendo gli scribi narratori abituali della pedata, ingiustamente convinti di un ruolo secondario nel giornalismo. Così mi stupì e irritò nei Settanta Gerhard Vinnai (“Il calcio come ideologia”, trattatello fazioso) col quale mi scontrai “dal vivo” trent'anni dopo; così mi trova da sempre incredulo una battuta attribuita a Bertrand Russel («Chi non ama il calcio si perde qualcosa della vita») mentre ho appurato esser proprio di Sartre la definizione «Il calcio è metafora della vita», certo più alta e nobile dell'altra («Ciò che complica ogni cosa nella partita di calcio è la presenza della squadra avversaria») la cui ironica banalità si sposa con la perentoria affermazione di Annibale Frossi - ve n'ho già parlato - secondo il quale «il risultato perfetto della partita è lo zero a zero, il gol è solo un errore». Errore: ammettiamo che sia vero, ma di chi? Nel campionato che stiamo vivendo e che in dieci giornate ha visto realizzate quasi trecento reti (ahinoi in maggioranza di stranieri) ci son lacrime e allegria per tutti, grandi e piccoli, se è vero che prima di applaudire i goleador si condannano coloro che li hanno subìti, dunque i portieri, a partire da Buffon (10) per finire con Pegolo del Sassuolo (24) insidiato da Curci del Bologna (22); per non dire di Perin (14) che, sopraffatto dagli elogi dei qualunquisti nella prima fase del Pescara, fu poi brutalmente scaricato e ora tenta - con onore - di risalire la china al Genoa. Dunque il portiere protagonista assoluto, nel bene e nel male, se è vero che della Roma per settimane si è celebrato più il solo gol incassato da De Sanctis di quelli, numerosi, realizzati dai suoi compagni durante la bellissima corsa al record. Ma è fin troppo facile scaricare tutta la responsabilità sui guardiani quando in realtà le colpe più gravi andrebbero attribuite ai reparti: dell'antico spirito difensivistico del calcio italiano è stato recuperato - con mia grande soddisfazione - il Contropiede, peraltro favorito da un assetto difensivo a rischio - modulo “a quattro” - mentre il gioco “a tre”, in realtà “a cinque”, favorisce gli slanci offensivi come i recuperi-lampo; la più evidente carenza difensiva, che finisce per penalizzare il portiere, è tuttavia nella zona nevralgica del campo, quel “centrocampo” nel quale vanno a collocarsi i pedatori più bravi, siano essi perfetti tutori della difesa, come Behrami, o suggeritori o protagonisti della fase offensiva, come Pogba, o infine strepitosi nell'uno e nell'altro ruolo, come De Rossi. Roma, Napoli e Juve: le prime tre, non è un caso.
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