mercoledì 7 novembre 2007
Quando nasce un bambino, è segno che Dio non si è ancora stancato dell'umanità.
Sicuramente avrete letto o ascoltato altre volte questa frase molto suggestiva. A scriverla è stato un poeta indiano popolarissimo in Occidente, Tagore (1861-1941). Mi è ritornata in mente ieri sera mentre prendevo tra le braccia una bambina neonata, figlia di una giovane coppia di cui ho celebrato le nozze qualche anno fa. Lo stupore che genera la creatura umana nella sua complessità fisica ma soprattutto nel suo mistero interiore non può essere facilmente spazzato via con la supponenza di chi riduce tutto a un meccanismo biologico. «Nell'istante in cui presi tra le braccia mio figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera imperfetta pur tuttavia compiuta».
Così confessava il protagonista del noto romanzo La cripta dei Cappuccini (1938) di Joseph Roth, e continuava: «Pur piccola, bruttina e rossastra fosse la creatura tra le mie braccia, da essa emanava, una forza invincibile». È la forza della vita ma è anche un'epifania di Dio stesso, se è vero che l'uomo è l'«immagine», la statua più simile al Creatore che si possa concepire. Tagore ci ricorda che la potenza generatrice della coppia che genera è espressione della costante fiducia che Dio ha nei confronti dell'umanità, nonostante tutte le delusioni. La scelta divina di avere un interlocutore libero com'è l'uomo, avvenuta alle origini, continua ogni volta che sulla terra nasce un figlio, «fatto poco meno di un Dio, coronato di gloria e di onore» (Salmo 8, 6).
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