martedì 6 settembre 2011
Mi è stato donato un corpo: che farò di questo dono unico e mio? A chi dovrò essere grato di questa sommessa gioia di respirare ed esistere? Il mio respiro si posa già sui vetri dell'eternità, sì, il caldo del mio fiato… Scola via la fanghiglia dell'istante, rimane il caro disegno del mio essere.

La poesia dev'essere gustata goccia per goccia e lasciata defluire nel cuore e nell'anima. Fate questo esercizio coi versi che oggi ho tratto da una raccolta del poeta russo Osip E. Mandel'štam, nato a Varsavia nel 1891 e morto in un lager staliniano presso Vladivostok forse nel 1938. La raffinatezza del suo stile si coniuga con l'intensità del pensiero: egli apparteneva alla corrente detta dell'«acmeismo», che voleva cercare sempre l'akmé, in greco l'«apice», il cuore dell'essenza delle cose, degli eventi e dell'esistenza umana. Di scena ora è il corpo, questa realtà che non possediamo ma in cui siamo, identificandoci con essa. È un dono divino che può essere dissipato e fin buttato via: basta solo fissare il volto devastato di un drogato per capire quanto tragico sia questo spreco.
Certo, il corpo è materia, è una «fanghiglia» che cola giù, legata all'«istante», cioè al tempo che stilla via sparendo. Eppure ci sono due segni di immortalità in noi che il poeta esprime in modo folgorante. Da un lato, il nostro respiro alona «i vetri dell'eternità»; il nostro fiato è il segno dell'anima che anela all'infinito. D'altro lato, in questo corpo c'è l'impronta profonda di un «disegno» divino e trascendente. È il nostro mistero intimo che ci rende «immagine di Dio», come dice la Bibbia, ossia creature dotate di una coscienza e di un destino che va oltre la dissoluzione della «fanghiglia» della nostra materialità. «Che farò, allora, di questo dono unico e mio?».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: