sabato 19 giugno 2010
È stato ieri mentre cercavo di infilare ancora due volumi nella fragile struttura, montata di recente, che una quantità incredibile di libri mi è caduta addosso. Alcuni erano rimasti in cantina per anni e avevano preso tra le pagine ora aperte quell'odore di piccole muffe. Odore di vecchio, direbbe qualcuno, no di antico, quasi un profumo del tempo che è appena passato. E lì a terra sono rimasta a pensare a chi prima di me aveva avuto in mano quelle carte, alcune ben rilegate, altre che mettevano allo scoperto vecchi punti allacciati uno all'altro con filo sottile. Mi viene in mente la figura di una zia, anche lei antica, che mi voleva insegnare a rilegare i libri, usando un piccolo telaio di legno. L'ago mi faceva male alle dita mentre si cucivano 5
fogli alla volta e poi si metteva la pressa, poi una colla a tenerli fermi fino alla cucitura del prossimo gruppo. Un lavoro di pazienza. Zia Lidia mi permetteva di tenere la radio accesa, con la promessa che non avrei battuto il tempo con un piede altrimenti avrei guastato tutto il lavoro. Era un tormento stare ferma mentre la radio trasmetteva le canzoni che sapevo a memoria, poi c'era quell'ippocastano che lasciava danzare le sue foglie al vento e mi sembravano grandi mani verdi che a tratti scoprivano il sole e ne proiettavano i raggi sui fogli che dovevo cucire. Sta' buona, sembrava mi dicesse l'albero, fai male con quell'ago, lasciali volare sul prato come le ali bianche del grande uccello che vive nel bosco. «Bambina che fai?», mi scuoteva con voce altissima la zia e io mi ritrovavo a tirare il filo sulla edizione del 1908 de L'Antico Regime di Ippolito Taine. Non sapevo chi fosse, ma certo uno bravo perché in fondo alla prima pagina stava scritto: terzo migliaio. In qualche modo e non ricordo in quanto tempo i 5 volumi fecero bella mostra sul tavolo di mio padre il giorno della sua festa. Ora son qui per terra con me e vedo che mio padre deve averli letti perché trovo delle sottolineature a matita nel primo capitolo intitolato: «I Privilegiati» dove l'autore calcola, esaminando l'anno 1789, il numero degli appartenenti alla classe nobile, al clero e alla famiglia del re che nell'insieme rispondevano alla cifra di 270.000 persone. Girando le pagine anche solo del primo volume, vedo ciò che maggiormente interessava a mio padre di questa lettura. Le sottolineature riguardavano i privilegi ingiusti, i mali della burocrazia che stava al centro di un simile sistema e quindi arbitrio, eccezioni e favori senza controllo. Vedo segnata questa frase: «Più tardi Mirabeau, che rincasa dopo aver votato l'abolizione dei titoli di nobiltà, afferra il suo cameriere per l'orecchio e gli grida ridendo con la sua voce tonante: Orsù, briccone, spero bene che per te sarò sempre "il signor conte!"». Sarebbe interessante prendere nota di tutte le pagine dove mio padre aveva fermato la sua attenzione. Non ricordavo che nella sua ultima estate, restituendomi i volumi, vi aveva messo questa dedica: «A te, cara Maria Romana, questa modesta edizione, resa preziosa dall'opera artigiana delle tue mani fanciulle. Il papà».
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