martedì 15 novembre 2011
Ho sempre avuto dei bambini disabili in classe. E ho sempre difeso i loro diritti. Ai miei alunni che potevano correre, saltare, prendersi e fare la lotta, ho sempre detto che dovevano essere orgogliosi di aiutare chi quelle stesse cose non poteva farle. L'insegnante di sostegno è una presenza essenziale per molti bambini. Non perché faccia loro da badante. Ma perché questi bambini possano ricevere aiuti precisi da una persona competente, per diventare più capaci di controllare la loro vita. Non ho mai considerato la maestra di sostegno come una stampella di qualcuno. Perciò l'ho sempre inclusa nel lavoro della classe. Questo vuol dire che in tanti momenti della giornata, quando gli alunni erano divisi in gruppi, anch'io mi occupavo direttamente di un bambino con dei bisogni speciali. Se non avevo le competenze tecniche, avevo però l'umanità, che spesso è più che sufficiente per parlare a chi non può parlare. Ai miei alunni che a volte mi chiamavano papà, ho sempre ricordato che io ero il loro maestro, un compagno di strada più grande sul quale contare per crescere meglio, imparare, conoscere. Ma questa ovvietà non mi ha mai impedito di trattare come un figlio un bambino bisognoso di aiuto. E non ho mai atteso che venisse l'insegnante di sostegno a sollevare una testa che non riusciva a stare diritta, ad asciugare una saliva che non poteva essere ingoiata, a guidare una mano su un foglio di carta, per tracciare l'ombra di un desiderio o di un sogno che non poteva raccontarsi. Ho sempre cercato di essere una persona intera, un uomo che non si nasconde dietro astratti diritti e burocratici doveri per non mettere in gioco i suoi sentimenti e le sue emozioni. Il contatto con bambini gravemente disabili mi ha sempre spinto a chiedermi chi sono veramente e in che conto tengo la mia vita e quella degli altri. Un bambino che ha bisogno di tutto non ti permette di guardare altrove. Ha bisogno qui e ora di un sorriso, un gesto, una parola. Non dimentichiamocelo. I bambini ci guardano: tutti.
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